Oggi siamo sprovvisti di un’efficace cultura del merito. La stagione delle culture meritocratiche, fondate sulla pretesa di garantire una migliore utilizzazione del capitale umano, si è chiusa con la crisi delle teorie economiche del liberismo e con l’emergere di enormi distorsioni sociali che mettono in dubbio anche le più sofisticate teorie sulla giustizia. Non basta più l’idea diffusa che il merito è il risultato, misurabile, della fusione tra impegno (determinazione), sforzo (energia) e caratteristiche individuali (potenzialità).
Il pianeta è costellato da numerose “fabbriche dell’eccellenza” – istituzioni private, università d’élite, gruppi industriali, laboratori di ricerca avanzata – che hanno adottato idee e concetti tipici di modelli produttivi esasperati, ma che oggi sono in crisi a causa della decadenza dello “spirito pubblico” e della capacità della politica di contenere gli “spiriti animali” del mercato e lo strapotere di imprese globali che si sostituiscono in molti casi agli Stati. A parole, rappresentano il meglio che si possa prevedere, ma nei fatti mostrano alcuni gravi vizi d’origine: sono orientate contro la cogestione tra manager e lavoratori; funzionano solo fino a un certo livello di addetti; richiedono investimenti colossali e stabili nel tempo; finiscono per essere dominate dalla volontà di pochi dirigenti; sono poco flessibili e adattabili a situazioni di emergenza; infine, sono per lo più impermeabili al giudizio dell’opinione pubblica e talvolta anche alle leggi.
Si percepisce la mancanza di una riflessione condivisa capace di integrare il merito individuale all’interno di una riconsiderazione generale dei rapporti sociali, che si sono complicati, e delle possibilità umane, che si sono dilatate a dismisura.