Quale postura assumere, in etica, rispetto alla questione del perdono? È, il perdono, estraneo all’etica – troppo in basso o troppo in alto rispetto ad essa – oppure costituisce il suo centro segreto e rimosso, il cardine attorno al quale tutta l’etica (inconsapevolmente) gira? Ha dunque l’etica diritto (e dovere) di parola in materia di perdono?
La questione è complessa, dato che la sua natura anfibia rende il perdono difficilmente collocabile nel quadro delle categorie classiche dell’etica. Il suo carattere personale lo rende infatti irriducibile all’alternativa tra pubblico e privato: non è un atto semplicemente pubblico (sfonda dunque i confini della sfera politica), ma non è neanche semplicemente privato (ha delle ricadute pubbliche che lo rendono irriducibile a una mera opzione etica privata).
Al contempo, esso appare sostanzialmente estraneo allo spazio etico-politico dei diritti e dei doveri, nella misura in cui non esiste un dovere (etico-politico) di perdonare, né – tantomeno – un diritto ad essere perdonati. Lo attesta il semplice senso comune: affinché ci sia vero perdono, occorre che esso sia libero e gratuito.
Libertà e gratuità collocano inoltre il perdono decisamente all’esterno delle due tradizionali famiglie dell’etica: l’etica di matrice deontologica – un’ etica del “dovere” incapace di fare i conti il carattere libero e gratuito del perdono – e l’etica di matrice consequenzialista – incompatibile con la necessità che il perdono sia disinteressato e incondizionato (sia dunque “insensibile” alle sue conseguenze).
Libero e disinteressato, il perdono si configurerebbe dunque – al più – come una virtù privata: come un atto supererogatorio, tale per cui chi lo pratica, in assenza di un preciso obbligo, sarebbe degno di lode e di encomio, mentre chi lo rifiuta non sarebbe meritevole di biasimo.
In questo senso, il perdono esulerebbe dai confini dell’etica pubblica. Occorre tuttavia domandarsi se non sia possibile un’altra prospettiva.