La ricorrenza del quinto centenario della Riforma di Lutero (1517-2017) rappresenta un’ottima occasione per fare il punto sulla qualità delle relazioni ecumeniche tra le Chiese cristiane: ce ne siamo occupati nel n. 1/2017 di Munera, ospitando un’intervista con Michel Grandjean, storico della Facoltà di Teologia protestante dell’Università di Ginevra, e con Ottmar Fuchs, teologo della Facoltà di Teologia cattolica dell’Università di Tubinga.
In proposito, e aldilà di alcuni inevitabili chiaroscuri, il bilancio è nettamente positivo. Al punto che si può anche sperare – come scrivevamo nell’editoriale di quel medesimo numero – che, proprio grazie all’esperienza ecumenica, le Chiese cristiane possano oggi svolgere il ruolo di minoranze creative capaci di avviare processi di rinnovamento anche al di là dei confini ecclesiali. Se oggi infatti la tendenza generale è di chiudersi nel proprio piccolo e rassicurante recinto, immunizzandosi anche solo dal contatto con il diverso, le Chiese cristiane possono mostrare con coraggio che un’altra via è possibile. È cioè possibile aprirsi all’altro, anche a quello che per secoli ha rappresentato un’alterità irriducibile e incompatibile (niente meno che il traditore della verità che ti fa vivere).
Se cinquecento anni fa la Riforma di Lutero ha rappresentato l’occasione per una dolorosa divisione dell’Europa, oggi grazie a un’esperienza di dialogo e di condivisione che va avanti da circa un secolo a questa parte (soprattutto dal basso), le Chiese cristiane possono offrire a tutti l’esempio di un cammino di riconciliazione e di unità nelle differenze. Anche il loro essere divenute minoranza può rappresentare un esempio importante per un’Europa alle prese con un mondo ormai tutt’altro che eurocentrico: la condizione di minoranza reca con sé delle opportunità che devono essere colte, se non altro in termini di un più profondo contatto con la propria identità, di una più profonda comprensione di sé e dell’altro da sé. Da un’accettazione reciproca di differenze tra loro non uniformate od omologate, ma profondamente accettate e riconciliate, può iniziare il risveglio dell’Europa. E forse, a partire da essa, del mondo intero.
Ma la commemorazione del quinto centenario luterano si presenta come occasione anche per una riflessione più ampia. La Riforma costituisce infatti innegabilmente uno degli eventi fondatori della modernità. La ricorrenza offre così l’occasione per quello che – certo un po’ ambiziosamente – abbiamo voluto chiamare Bilancio sulla modernità. La modernità è in realtà in discussione da tempo, e non a caso dalla fine degli anni Settanta si tende a qualificare il nostro tempo con termini quali «postmodernità», «ultramodernità», o – in modo un poco più prudente – «modernità tardiva». Certo è che alcuni capisaldi della modernità sono oggi rimessi fortemente in discussione: in ambito politico, giuridico, economico, sociale, scientifico, filosofico, religioso. Si tratta di processi di lungo periodo, che richiedono analisi molto approfondite, e che non sono certo esauribili con la semplice aggiunta di un prefisso (post-, ultra-…). Fare un bilancio della modernità è un’impresa molto ardua, che impone di avere chiaro che cosa sia la modernità stessa al fine di valutare a che punto sia il suo processo di sviluppo e di maturazione (o, semmai, di invecchiamento e di sostituzione). Il dossier Bilancio sulla modernità ospitato in questo numero della rivista presenta alcuni contributi che cercano di fare il punto in altrettanti ambiti: giuridico, economico, antropologico, filosofico e teologico. Ne emerge un quadro di luci e ombre.
Alcuni aspetti della modernità, di per sé positivi, come la grande scoperta/invenzione dei diritti individuali, sembrano aver preso la strada di una vera e propria parcellizzazione e proliferazione (lo osservava già Norberto Bobbio): la difficoltà sta oggi nel mettere in gerarchia diritti che potenzialmente confliggono tra loro.
Anche in ambito economico si avverte oggi una crisi di alcune conquiste della modernità, come quella del primato del profitto sulle rendite di posizione: oggi le rendite sembrano tornare ad avere la meglio sul profitto, con tutti gli squilibri in termini di eguaglianza e di giustizia che abbiamo davanti agli occhi. Neanche il capitalismo – le cui origini sono legate secondo Max Weber alla Riforma protestante nella sua variante calvinista – è oggi più lo stesso.
Altri aspetti della modernità, come quello del rapporto problematico tra l’autorità e la libertà, hanno conosciuto fasi alterne: e se, proprio in Lutero, coesiste una relativizzazione di alcune autorità terrene con la consapevolezza del carattere di dono della libertà, in altri contesti e in altre epoche tale consapevolezza è in buona parte venuta meno, dando origine a un dissidio apparentemente insolubile tra autorità e libertà.
Una prospettiva interessante per comprendere i complicati rapporti tra cattolicesimo e modernità è poi quella della legge naturale, categoria che forse più di ogni altra ha segnato il terreno di uno scontro, ma anche quello di una riconciliazione su una base comune. Uguali incertezze si registrano in tema di fedi e di religioni: nonostante tutte le profezie di sventura, fedi e religioni sono ancora molto vive, seppure in forme differenti rispetto al passato, e certo non esenti da derive di tipo individualistico e intimistico.
Interrogarsi sulla nostra condizione post-, ultra-, tardo-moderna, a cinquecento anni dalle tesi di Lutero, significa dunque fare i conti con un paradigma culturale che ha retto il mondo – il nostro mondo – per cinquecento anni, ma che oggi sembra scricchiolare in alcune delle sue fondamenta. Qualcosa di nuovo sembra prendere forma, ma si fa ancora fatica a delinearne i tratti sostanziali. Certo è che tutto questo merita attenzione.
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C’è ancora un anniversario che vorremmo onorare: anniversario forse meno importante dal punto di vista dei suoi effetti sulla nostra epoca, ma per noi egualmente significativo. Ricorrono quest’anno gli ottant’anni dalla morte di Pavel Aleksandrovič Florenskij (1882-1937), intellettuale poliedrico e geniale, padre, marito e prete ortodosso, spirito profondo e coscienza critica del suo e del nostro tempo, morto martire in un gulag sovietico. Alla sua opera e alla sua figura spirituale e intellettuale Munera si è sempre voluta ispirare, riconoscendo in lui un maestro e un modello di umanità e di pensiero. Lo vogliamo ricordare con una sua diagnosi dell’inaridimento spirituale della nostra cultura tardo-moderna, sotto la pressione di un indebito primato accordato all’astrazione, la quale rinnega il concreto, e alla specializzazione, che sacrifica l’intero:
Già da tempo – scriveva Florenskij – forse a partire dal XVI secolo, abbiamo smesso di percepire la globalità della cultura come vita nostra […]. Ai singoli problemi della scienza, ai singoli concetti teoretici corrisponde l’estrema specializzazione nell’arte, nella tecnica e nella società. […] Già da tempo l’oggetto di un settore specialistico è inaccessibile non solo all’incolto, ma persino allo specialista del settore attiguo. Sì, addirittura allo specialista dello stesso settore, una sottodisciplina può apparire inaccessibile. […] La cultura è un linguaggio che unisce l’umanità, ma non ci troviamo forse in una confusione linguistica in cui nessuno comprende l’altro e tutti i discorsi servono solo ad accentuare la reciproca alienazione e a conferirle un aspetto quasi definitivo? […] L’edificio della cultura è spiritualmente inaridito.[1]
La terapia adeguata per tale inaridimento delle sorgenti vitali e popolari della cultura, Florenskij la individuava in un’attenta considerazione dello statuto simbolico del reale, in nome delle ragioni della concretezza e dell’intero:
Per tutta la vita ho riflettuto su un solo problema, il problema del SIMBOLO. […] Io volevo vedere l’anima, ma volevo vederla incarnata. Qualcuno vorrà chiamarlo materialismo. Non si tratta però di materialismo, ma della necessità del concreto, o simbolismo. Sono sempre stato un simbolista. Nella mia mente le cose non erano coperte da veli, anzi svelavano le loro essenze spirituali che, in assenza di quei veli, sarebbero state invisibili non per debolezza della vista umana, ma perché non ci sarebbe stato nulla da vedere.[2]
Nella ricerca di tali ragioni, del concreto e dell’intero, Munera riconosce in Florenskij un maestro e un riferimento.