Il condannato alla pena perpetua è ammesso, al pari di ogni altro condannato a pene detentive temporanee e fermi i requisiti previsti, a godere di determinati benefici penitenziari, quali il lavoro all’esterno, i permessi premio, la semilibertà, la liberazione anticipata: egli può contribuire, con la propria condotta, a “ridurre” il carico di pena residua espianda. Non solo, non gli è nemmeno preclusa – l’ha scritto la Corte costituzionale (sentenza n. 204/1974) e il legislatore, comme il faut, l’ha recepito – la liberazione condizionale: il condannato può, dopo ventisei anni e se tiene «un comportamento tale da far ritenere sicuro il suo ravvedimento», vedere “estinta” la propria pena (art. 176 c.p.) e ritornare in società. Scontare una pena – anche perpetua – ha senso se il condannato ritrova, per così dire, un “nuovo se stesso”. Su tutto ciò scommette il diritto penale e, anzi, l’ordinamento giuridico nel suo complesso.
Su una categoria sola di condannati lo Stato ha scelto di non scommettere: coloro i quali sono sottoposti a un regime c.d. “ostativo”.