Un articolo completo su “Munera”: per una teoria della “indisponibilità” del matrimonio


Sull’ultimo numero della rivista “Munera”(2/2014, pp.41-54) è uscito un articolo di A. Grillo dal titolo

 Indissolubilità del vincolo e matrimoni falliti. Verso una teoria della “indisponibilità” del vincolo? 

Il testo può essere scaricato gratuitamente all’indirizzo http://www.cittadellaeditrice.com/munera/
Anticipo qui i  primi due paragrafi dell’articolo:
                                                             “Abbiamo bisogno di un cambiamento di paradigma”
                                                 W. Kasper 
Proprio nel momento in cui la Chiesa conosce un rinnovato slancio nel pensare la propria tradizione, mediante una lettura vitale e dinamica, capace di dialogare con la storia e aperta alle novità che lo Spirito le riserva ad ogni generazione, per affrontare la delicata questione dei “fedeli divorziati risposati” (= FDR) occorre recuperare l’orizzonte di una “intelligenza coraggiosa” della tradizione, come il Concilio Vaticano II 50 anni fa, e di recente “Evangelii Gaudium” hanno saputo presentare, per recuperare un ritardo storico della Chiesa nel porsi correttamente di fronte alle questioni suscitate dalla forma tardo-moderna e secolarizzata dell’esistenza degli uomini e delle donne, inaugurata circa 200 anni fa. 
1. Una considerazione alla luce del Concilio Vaticano II e della sua svolta pastorale
La forma più esplicita di questa sfida da accogliere è riuscire a pensare in modo più adeguato la distinzione/correlazione tra dottrina e pratica, per assicurare un servizio alla tradizione che sappia mantenere vivo ciò che è fondamentale e sappia congedarsi con onestà e con rispetto dalle pratiche non più adeguate ai tempi e alla trasmissione della fede. Il “caso serio” dei FDR rappresenta, da questo punto di vista, il sintomo di una difficoltà che riguarda non tanto la “patologia”, ma la “fisiologia” dell’intera teologia cristiana del matrimonio, che risulta incapace di riconoscere e affrontare adeguatamente le questioni degli ultimi due secoli. 
Tipico di questo imbarazzo è il fatto di chiamare “situazioni irregolari” queste difficoltà strutturali, che riguardano non tanto soggetti individuali, ma condizioni comunitarie di vita e di fede. Affrontare con criteri di carattere individualistico i problemi di “nuove comunità di vita” – certo problematiche, ma tutt’altro che riducibili al “marchio dell’infamia” è il segno di una profonda incomprensione della realtà e di una tentazione di rimozione e di fuga che deve essere urgentemente corretta. Ma la stessa tradizione, che vive comprensibilmente queste esitazioni, ha già trovato, da 50 anni, la via per rispondere responsabilmente ad esse. Il “concilio pastorale” ha stabilito, anzitutto per se stesso, un criterio di massima: distinguere la “sostanza della antica dottrina del depositum fidei” dalla “formulazione del suo rivestimento”. La fedeltà alla tradizione viene resa possibile grazie ad un accurato processo di “traduzione”, mediante il quale si mantiene il contatto tra il principio dottrinale da affermare e la sua forma storica da attestare. 
Nel caso concreto dei FDR dobbiamo allora porre, con urgente necessità, l’esigenza di “tradurre il linguaggio classico del vincolo indissolubile in forme nuove di fedeltà alla dottrina evangelica”. Ciò che la dottrina matrimoniale, nella sua formulazione classica,. non riesce a mediare sono diverse novità, che qui brevemente illustro provvisoriamente:
– la condizione della “libertà di coscienza”, che caratterizza non più il “mondo” rispetto alla Chiesa, ma come caratteristica dei “christifideles” stessi, secondo la dichiarazione  conciliare Dignitatis Humanae, dopo la quale risulta semplicemente illusorio pensare di poter concepire o esercitare l’autorità nella Chiesa aggirando la “libertà di coscienza”.
– la rilevanza per il “legame/vincolo” non solo delle condizioni iniziali di consenso/consumazione, ma anche le condizioni storiche e relazionali del “bene dei coniugi”, elemento introdotto autorevolmente e irreversibilmente da GS nella logica del matrimonio e poi ulteriormente maturato nel corso di questi 50 anni, non senza resistenze e opposizioni viscerali;
– una adeguata (e non estrinseca) correlazione tra grazia, cultura e natura per una comprensione del matrimonio veramente rispettosa della tradizione cristiana, non ridotta a formalismi giuridici o a principi metafisici indebitamente spostati sul piano del “dato teologico”. Ciò che deve essere creduto non può essere semplicemente una evidenza ontologica da presupporre. Ed è profondamente distorto usare per il matrimonio ciò che sappiamo di non poter usare semplicisticamente per Dio. L’argomento ontologico, che già nei confronti di Dio comporta qualche perplessità, diventa dirompente se utilizzato per “provare” il matrimonio.
– Il rilievo della esperienza del “fallimento” o della “morte” del matrimonio non può essere esorcizzato e/o rimosso con un uso spregiudicato di una alleanza tra formalismo giuridico e astrattezza metafisica. Prendersi cura della questione dei FDR mediante il ricorso a “leggi generali e astratte” è, in fondo, un “procedimento” che si può concepire, in questa forma, solo come una acquisizione “post-napoleonica”, tipica del modo di concepire il rapporto tra legge e fattispecie secondo una sensibilità tardo-moderna, che non lascia alcuno spazio alla mediazione del discernimento prudenziale e alle logiche “classiche” del “male minore”.
2. Una tesi “concliare”: preservare la “indissolubilità” traducendola con “indisponibilità”
Alla luce di queste prime considerazioni, vorrei proporre, sulla scorta di alcuni studi recenti (soprattutto  di B. Petrà, ma anche di Gh. Lafont) la possibilità di tradurre la dottrina della “indissolubilità del vincolo” in “indisponibilità del vincolo”, ampliando la accezione del “caso di morte”, che tutta la tradizione ha considerato come “causa di scioglimento del vincolo” e non di “nullità del vincolo”. Se la dottrina ha già avuto la forza di introdurre con maggiore evidenza il ruolo della coscienza e del “bene dei coniugi” in altre dimensioni della esperienza ecclesiale, per conseguenza, deve ammettere che il rilievo della “morte” per la sussistenza del vincolo ha subìto, per questa stessa evoluzione che non costituisce un problema, uno sviluppo che appare, invece, problematico. Vorrei dimostrare, in altri termini, che proprio la estensione al sacramento del matrimonio di un nuovo concetti di soggetto “libero nella coscienza” e di un nuovo bene relazionale (bene dei coniugi) ha modificato strutturalmente il rilievo della morte, che non riguarda più semplicemente la vita fisica/biologica dei coniugi, ma tocca la relazione stessa, il rapporto tra libera coscienza e bene dell’altro: “finché morte non vi separi” significherebbe, quindi, non solo l’”exitus vitae” di ogni singolo coniuge, ma anche l’”exitus relationis” .
Da ultimo, in questo percorso, dovrebbe anche apparire come il tema della “misericordia”, giustamente invocato per la soluzione della questione, debba essere affrontato in modo complesso: come “desiderio di guarigione”, come riapertura di prospettive, come “nuovo inizio”. Ma per fare ciò occorre recuperare una visione più equilibrata e articolata della “guarigione ecclesiale”, che non procede solo secondo le logiche della penitenza, ma anche secondo le logiche della unzione. I corpi dei FDR non sono caduti in crisi soltanto “in quanto hanno peccato”, ma spesso perché hanno visto ammalarsi e morire il loro cuore. Una chiesa unilaterale può dimenticare che il suo esercizio di annuncio della misericordia non è soltanto in vista di un peccato da perdonare, ma anche di una malattia da curare. La relazione tra dimensione del peccato e dimensione della malattia non conosce una logica unilaterale e moralistica. Pensare che ogni malattia sia frutto di una colpa è un assunto contestato duramente da Giobbe e da Gesù, nel modo più sorprendente. 
Penitenza e prossimità, parole di perdono e preghiere nel silenzio, riapertura di credito nonostante il peccato e sollievo dalla prostrazione nonostante la malattia sono i canali paralleli e mai esclusivi con cui non è possibile irrigidire una condizione di vita comunitaria in un errore da condannare o in una malattia mortale cui rassegnarsi. 
In ultima istanza, la differenza tra “ciò che non muore” e “ciò che può morire” costituisce, sia per l’idea di tradizione, sia per la domanda intorno ai FDR, una soglia decisiva per valutare le forme della fedeltà piena di speranza e per distinguerle dalle forme della disperazione e da quelle della presunzione. Ricordando, tuttavia, che la speranza, in quanto virtù, ha, oltre che due vizi come eccessi, anche due figli, ossia lo sdegno e il coraggio. Una chiesa capace di “sdegnarsi” per la inadeguatezza delle proprie risposte rispetto ai problemi che sorgono nella storia, diventa, nella speranza, coraggiosa nel voler tradurre in forma nuova il depositum fidei, che essa è chiamata non a controllare, ma a servire. Resta, una tale Chiesa, modellata non sulla forma del museo, ma su quella del giardino…  
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