Un nuovo “caso Galileo”? La nascita della sessualità e la dottrina cattolica


galileo_galilei_illustrazione

La società moderna si distingue dalle precedenti formazioni sociali per un duplice incremento:

una maggiore possibilità di relazioni impersonali e relazioni personali più intense”

(N. Luhmann, Amore come passione)

In una intervista del 2015, Matthew Fox, con sguardo acuto, disse che “la questione della sessualità è il caso Galilei del nostro tempo”. Credo che questa battuta sappia darci lo sfondo giusto per capire la portata del “responsum” con cui l’organo dottrinale della Chiesa cattolica ha tentato di negare alla Chiesa il potere di benedire “coppie omosessuali”. Non bisogna lasciarsi distrarre dal tema “scabroso”: il problema riguarda non anzitutto la “omo-sessualità”, ma la “sessualità” in quanto tale, come cifra del mondo tardo-moderno, che la Chiesa cattolica, almeno in alcune sue istituzioni, fatica a conoscere e a riconoscere. Vorrei provare a dire, in parole semplici, quanto grande è la sfida che si nasconde dietro la paginetta di argomentazione del “responsum”.

Un “segno dei tempi” difficile da decifrare

Siamo di fronte ad un conflitto di interpretazioni e ad una rielaborazione del sapere tradizionale che ha tanti aspetti di assoluto rilievo. Per questo mi sembra che il tema della “omosessualità” implichi una “portata” molto più ampia di quanto noi mediamente riusciamo a riconoscere. Provo a riassumerla in poche questioni che si implicano a cascata. La questione sistematica che mi sembra decisiva è la seguente: è possibile o addirittura necessario considerare la omosessualità sotto la categoria delle “offese alla castità”? Ma ben prima, dietro la questione della omosessualità, sta una questione più grande, ossia la questione generale della sessualità. In altri termini il vero problema non è la variante “omo” della sessualità, ma la sessualità “tout-court”. La omosessualità può apparire “disordinata” perché la eterosessualità viene pensata come “ordinata” solo se riferita alla generazione. Ma è questa una visione del tutto accettabile? Ovviamente non affermo che ciò non abbia fondamento, ma mi chiedo se sia davvero così esclusiva. Per andare ancora più avanti, mi chiedo: che l’esercizio della sessualità non sia “peccato” solo all’interno del matrimonio è davvero la risposta evangelica alla scoperta della sessualita, diversa dal semplice “sesso”? Non vi è, in tutto ciò, una indebita sovrapposizione tra natura, cultura e vangelo? Provo a elaborare in forma iniziale, come semplici spunti di riflessione, queste diverse questioni, cercando di mostrare la esigenza di una accurata elaborazione di nuove categorie, senza le quali la dottrina cattolica rischia di essere soltanto una “difesa” di principi sacrosanti, ma con strumenti teorici e operativi non più adeguati. Per difendere la tradizione, infatti, i “talenti” non possono essere “sepolti sotto terra”, ma devono essere impiegati con coraggio e con pazienza, nel dialogo culturale di oggi, non più soltanto nella cultura di Agostino, di S. Tommaso d’Aquino, di Lutero o del Cardinal Gasparri.

Una comprensione “funzionale” della sessualità.

Se per molti secoli la Chiesa cattolica ha definito il “contratto di matrimonio” come esercizio dello “ius in corpus”, ossia il diritto esclusivo, in capo ad ognuno dei coniugi, sul sesso dell’altro ai fini della generazione, è evidente che non si sia trovata attrezzata, concettualmente, ad affrontare la “trasformazione della intimità” e la “nascita della sessualità” in una società aperta. Quando il sesso diventa sessualità, cioè quando da strumento inizia a partecipare anche alla logica del fine, non solo il peccato è in gioco, ma diventa centrale in esso anche la definizione (autodefinizione e eterodefinizione) del soggetto. Così, la rappresentazione di una sessualità legittimamente esercitata soltanto nella cornice del rapporto matrimoniale è una forma esasperata di sostituzione del “compimento” con la realtà complessa della esistenza. Nella esistenza umana, della sessualità si fa esperienza non solo nel matrimonio: questo è un dato che emerge “in natura” e nella società aperta, che non censura previamente i comportamenti. In questo modo, inevitabilmente, tutto ciò che cade “fuori” del matrimonio (prima o accanto, per i fidanziati o per i celibi-nubili) è irrimediabilmente compreso soltanto con la categoria del peccato e quindi è frainteso. Senza voler ridimensionare la serietà dei discorsi sulla continenza e sulla castità – che restano qualificanti la vita propriamente umana – è ovvio che essi presuppongono un orizzonte di esperienza comune – sul piano personale e sociale – che è molto cambiato negli ultimi due secoli. Ma qui, evidentemente, nelle reazioni, il rischio di un massimalismo morale si sposa di continuo con una organizzazione sistematica delle cose troppo astratta. Una riequilibratura tra i “beni” del matrimonio implica, necessariamente, un’altra ripartizione tra bene e male, più sfumata e meno drastica. Che impone una ridefinizione della sessualità in ordine non solo alla generazione, ma alla relazione e al “bonum coniugum” e persino al “bonum sui”, in un matrimonio pensato non più anzitutto come “atto”, ma come “percorso” e come “processo”. Che la sessualità stia, nel processo, solo alla fine è una congettura astratta, che non riposa sulla esperienza reale. Se ci pensiamo, ciò è sempre stato vero solo per alcune donne, ma pressoché mai per gli uomini. La nostalgia per il “mondo ordinato” di una volta è anche la nostalgia per un contesto in cui tutti i ragazzi “da militare” scoprivano il sesso rigorosamente “fuori dal matrimonio” e spesso, ahimé, nelle “case di piacere”. Il che non assicurava una grande partenza come iniziazione alla vita sessuale e matrimoniale.

Lo spazio teorico del VI comandamento e la sua estensione postridentina

Se restiamo nella percezione “peccaminosa” della questione sessuale, dobbiamo però riconoscere che anche il “sistema dei peccati” non è sempre stato il medesimo. La struttura “classica” di meditazione ed elaborazione cristiana sul peccato non è stata costruita sul “decalogo”, ma sui “sette vizi capitali”. Questa organizzazione aveva un ordinamento dei peccati come quello dantesco: superbia, invidia, ira, avarizia, accidia, gola, lussuria. L’ultimo livello era il meno grave. Con il Concilio di Trento lo schema ecclesiale radica sul decalogo la struttura dei peccati. Ma il “de sexto” si estende agli “atti impuri” e assume un rilievo che farà del peccato sessuale, in età borghese, il peccato “per antonomasia”. Questa sproporzione fa parte della nostra eredità. Per questo la percezione della dimensione “di peccato” della omosessualità interferisce emotivamente e affettivamente sulla questione, distorcendo lo sguardo e la ragione. Può sembrare sorprendente, ma nell’inferno di Dante, il vizio della “sodomia” è prossimo alla usura e alla bestemmia. E’ peccato della società prima che della intimità. Anche la storia, anche la più lontana da noi, può dirci qualcosa di utile per “ricontestualizzare” il fenomeno e non fraintenderlo.

Natura, cultura e fede: una relazione più complessa del previsto

Se il riferimento alla “natura” può certamente essere di rilievo, occorre badare accuratamente alle mille forme di “inculturazione del naturale” che accompagnano, inevitabilmente, il discorso sull’uomo e sulla donna. Che sono animali “mai soltanto naturali”. La parola e la mano cambiano la natura e la trasformano. Sempre. Perciò, gli argomenti che si fondano su un “dato naturale” debbono cautelarsi dal proiettare sulla natura l’ordine sociale, la paura affettiva o la diffidenza del carattere. Non vi è dubbio che la grande distinzione tra “secondo natura” e “contro natura” possa funzionare piuttosto bene nel mondo antico, medievale e primo moderno. In particolare un “abuso” del riferimento “contro natura” è avvenuto proprio in considerazione della accelerazione scientifica e tecnologica del XIX e XX secolo. Così un prete in bicicletta, una donna che fa sport o un cardiopatico il cui cuore sia trapiantato sono stati, nei 60 anni prima del Vaticano II, casi classici di “scandali contro natura”. Quindi a partire dalla tarda-modernità occorre vigilare con cura su un uso del riferimento alla “natura” che presuppone grandi mediazioni culturali, alle quali debbono essere accuratamente dedicate considerazioni e distinzioni preziosissime. E’ evidente che la natura impedisce ad una relazione omosessuale diverse esperienze, che possiamo considerare decisive. Ma definire “contro natura” una relazione soltanto a partire da alcune differenze fisiologiche e biologiche rischia di esasperare solo alcuni aspetti di essa e di perdere la considerazione del fatto in sé. Direi, pertanto, che in questo caso la pur necessaria distinzione tra peccato e peccatore non è sufficiente. E’ la comprensione del peccato e della sua relazione al bene ad esigere un supplemento di intelletto e di cuore.

Il rilievo del “peccato” e la irrilevanza della “forma di vita”

Non vi è dubbio che la “liberazione dalla questione del peccato” sia un punto che deve essere considerato. Accettare la omosessualità “senza problemi” non costituisce una soluzione. Se l’orientamento omoaffettivo non considera la assenza di generazione come un suo problema, non elabora correttamente la propria esperienza. Ma la centralità del rapporto con il peccato dell’uomo, e con il suo superamento in Dio, non può essere l’orizzonte primo di comprensione della omosessualità. O, meglio, non dovrebbe esserlo della sessualità perché non lo è di tutto il resto della esperienza. E questo proprio perché, se il peccato è originale, più originale è la grazia. Qui facciamo ancora la esperienza, difficile e dura, di un “primato del peccato” nella autocoscienza cristiana e cattolica, che spesso diventa “colpevolizzazione di ogni diversità”. Se cerchiamo di addurre “argomenti naturali” – come la obiettiva “non differenza” tra due uomini o tra due donne, che esclude una “compenetrazione” – dobbiamo anche riconoscere che la loro gestione culturale influisce decisamente sulla stessa percezione naturale. E la stessa fecondità, che la natura esclude, la cultura non esclude. Su questo, io credo, una riflessione che non si polarizzi subito sulle “patologie personali o sociali”, ma consideri il bene reale che i soggetti possono vivere per loro e per il loro prossimo, impone una revisione delle categorie di fondo. Altrimenti ripetiamo evidenze che non corrispondono alla realtà. Così come accade per l’inizio e per la fine della vita, la natura e la cultura non si lasciano distinguere come evidenze immediate. Questo vale anche per la sessualità.

L’ombra lunga del Decreto Tametsi

Vi è poi un aspetto decisivo del passaggio dal sesso alla sessualità che mette la Chiesa davanti ad una “questione copernicana” decisiva. Ossia la riconsiderazione della “competenza” ecclesiale sulla “materia matrimoniale e sessuale”. Per capire il “tono” del responsum e anche la sua ingenuità, dobbiamo tornare al 1563 e alla invenzione della “forma canonica” del matrimonio. Ossia ad una grande svolta di tutta la cultura occidentale che ha spostato sulla Chiesa cattolica, sulle diocesi e sulle parrocchie, il “catalogo dei matrimoni”. Si pensi che da lì nasce la possibilità di definire alberi genealogici o di usare i cognomi, che sono proprio il frutto delle decisione tridentine. La Chiesa ha assunto in quel momento la competenza sul matrimonio, vale a dire sul contratto oltre che sulla benedizione. Per i 1563 anni precedenti mai era stato così. Ci si sposava non importa dove e in Chiesa vi era lo spazio per la benedizione della nozze. E’ chiaro che oggi siamo imbarazzati sulla benedizione che chiedono anche coppie dello stesso sesso: ci siamo abituati a pensare una “competenza integrale” e fatichiamo a recuperare competenze parziali. Ma questo è stato un trauma del quale ci siamo resi conto già 140 anni fa, a partire da “Arcanum Divinae Sapientiae” di Leone XIII, nel 1880, con la “pretesa” di una competenza esclusiva della Chiesa cattolica sul matrimonio, da opporre alla pretese ritenute assurde dello stato liberale: questo era il grido di una Chiesa accerchiata e messa sotto pressione. Ma abbiamo una tradizione più lunga del 1563. Addirittura abbiamo una tradizione che ha fatto della “laicità del matrimonio” il suo pallino. Abbiamo forse dimenticato che S. Tommaso diceva che la “generazione” avviene in molti modi: si è generati per la natura, per la città e per la chiesa? In effetti il modello tridentino di competenza ecclesiale sul matrimonio è entrato in crisi nel XIX secolo e con Familiaris Consortio ha trovato un punto di non ritorno. Nel momento in cui si dice che i “divorziati risposati” non perdono la comunione ecclesiale, il modello ottocentesco non funziona più. Amoris Laetitia ne è uscita definitivamente, anche se il responsum del 15 marzo finge di potervi restare all’interno, ma a costo di interrompere il rapporto con la realtà, osservandola da uno spioncino troppo angusto e oscuro.

Nuove scoperte e la società aperta

La pretesa di una “dottrina di sempre” in materia matrimoniale e sessuale è una ricostruzione astratta, che dimentica la storia. Nel momento in cui il sesso si trasforma in sessualità, perde in larga misura la sua natura di mera “funzione per altro” ed assume una rilevanza diretta per il soggetto, la dottrina deve trovare nuove risorse di argomentazione e di orientamento. Per farlo deve ascoltare il Vangelo e la esperienza degli uomini. Spesso dimentichiamo che questione sessuale e questione di genere sono legate a filo doppio, non solo terminologicamente. Cambia l’esercizio della sessualità nel momento in cui si scopre scientificamente, culturalmente e socialmente, che la donna non è “la parte passiva nella generazione” e quindi che è attiva nel generare, nell’esercizio della sessualità e nel ruolo sociale. Quando nel matrimonio c’è solo un capo, ossia il marito, o ce nel sono due, le cose non sono più le stesse. Questi sono fatti irreversibili che mutano la dottrina ecclesiale del matrimonio, che lo si voglia o no. E la Chiesa prima se ne rende conto e prima risponde adeguatamente alle “domande” che riceve, o che forse pone da sola a se stessa.

La riduzione tridentina come istinto autoreferenziale

Come il “caso Galileo”, la questione sessuale (e omosessuale) suscita reazioni viscerali. Come può la Chiesa dire che il “bene di Dio” è per tutti gli uomini, anche per i non battezzati? Se l’annuncio riguarda soggetti individuali o rapporti con le cose, non c’è problema: puoi benedire Luna Rossa o un carro armato, una intera mandria di buoi o una associazione per la ricerca sui fenicotteri. Ma se c’entra l’esercizio della sessualità, chiedi prima il certificato di buona condotta, la conformità alla natura, la assenza di secondi fini, e poi, eventualmente, ti metti in gioco. Questo atteggiamento è il frutto di una storia piena di passioni, di giudizi e di pregiudizi. Ma la tradizione ecclesiale è più antica del decreto Tametsi. E ha le risorse per rispondere “Affermative”, anche sul piano strettamente canonico. Purché a Roma, o in Germania, o negli USA, funzionari o teologi non decidano di vestire la loro parrucca e proclamino, come verità di sempre, il concentrato di rappresentazioni antimoderne con cui la Chiesa cattolica ha cercato di resistere, come poteva, alla gelata del XIX secolo. Abbiamo la cultura e la forza per essere all’altezza della realtà. Se ci chiudiamo nelle Stanze del S. Ufficio, se diamo la parola soltanto a chi è disposto a indossare la parrucca e a camuffarsi in un uomo di 200 anni fa per essere ancora cattolico, ci rendiamo degni di non essere presi sul serio. La questione della benedizione delle coppie omosessuali è molto più seria di quanto non appaia dal testo del “responsum”: proviamo a dare alla ufficialità ecclesiale un profilo più nobile e meno provinciale. Altrimenti un nuovo “caso Galileo” diverrà ingestibile e finirà che dovremo vergognarci e chiedere perdono, tra 50, 100 o 300 anni.

Share