Una comunione spirituale per gli irregolari?
La “non separazione dalla Chiesa” e la sua visibilità.
Comunione sacramentale/spirituale/ecclesiale e divorziati risposati.
“Anche senza la ricezione ‘corporale’ del sacramento, possiamo essere spiritualmente uniti a Cristo nel suo corpo”
(Benedetto XVI)
La “ratio” di questa risposta, data da papa Benedetto XVI nel 2012 a Milano alla domanda di due coniugi brasiliani, costituisce una salutare provocazione al dibattito che si è aperto intorno alla questione dell’accesso dei divorziati risposati alla comunione eucaristica.
D’altra parte, i “Lineamenta” per la XIV Assemblea Generale Ordinaria del Sinodo dei Vescovi invitavano ad una ricerca sul tema, con le seguenti parole:
“53. Alcuni Padri hanno sostenuto che le persone divorziate e risposate o conviventi possono ricorrere fruttuosamente alla comunione spirituale. Altri Padri si sono domandati perché allora non possano accedere a quella sacramentale. Viene quindi sollecitato un approfondimento della tematica in grado di far emergere la peculiarità delle due forme e la loro connessione con la teologia del matrimonio.”
A questo testo l’Instrumentum Laboris aggiunge un paragrafo (125) di questo tenore:
“125. Il cammino ecclesiale di incorporazione a Cristo, iniziato col Battesimo, anche per i fedeli divorziati e risposati civilmente si attua pgradi attraverso la conversione continua. In questo percorso diverse sono le modalità con cui essi sono invitati a conformare la loro vita al Signore Gesù, che con la Sua grazia li custodisce nella comunione ecclesiale. Come suggerisce ancora Familiaris Consortio 84, tra queste forme di partecipazione si raccomandano l’ascolto della Parola di Dio, la partecipazione alla celebrazione eucaristica, la perseveranza nella preghiera, le opere di carità, le iniziative comunitarie in favore della giustizia, l’educazione dei figli nella fede, lo spirito di penitenza, il tutto sostenuto dalla preghiera e dalla testimonianza accogliente della Chiesa.
Frutto di tale partecipazione è la comunione del credente con la comunità tutta, espressione della reale inserzione nel Corpo ecclesiale di Cristo. Per ciò che concerne la comunione spirituale, occorre ricordare che essa presuppone la conversione e lo stato di grazia ed è connessa con la comunione sacramentale.”
Per sviluppare ulteriormente il tema, in vista del Sinodo, occorre fare una premessa necessaria: la questione della differenza tra “comunione spirituale” e “comunione sacramentale” ha assunto nell’ultimo secolo un valore profondamente diverso da quanto essa significava per la tradizione scolastica e della prima modernità. La prassi della “comunione frequente”, introdotta autorevolmente da Pio X ai primi del ‘900, ha infatti sottratto alla distinzione classica gran parte della sua urgenza e della sua rilevanza1. Quindi, già di per sé, la questione dovrebbe essere considerata oggi in modo molto diverso di quanto non stia nelle fonti anteriori al magistero di Pio X.
Se poi desideriamo provare ad applicare tale prassi come possibile “via di soluzione” al problema dell’accesso dei fedeli divorziati risposati alla eucaristia, la peculiarità della posizione di questi battezzati deve essere riferita necessariamente non solo alle mutate pratiche del “rito di comunione”, ma anche alla recente trasformazione del concetto di “comunione ecclesiale”, con il superamento della nozione di “scomunica” applicata ai fedeli divorziati risposati, ufficialmente introdotto solo a partire dal 1981, con Familiaris Consortio 84.
Ci troviamo, quindi, oggi in una profonda e proficua interferenza tra tre concetti di comunione (spirituale, sacramentale ed ecclesiale), di cui i primi due sono, per tradizione, riferiti alla “manducatio corporis Christi”. Non si tratta, in altri termini, per i primi due termini dell’ “essere in comunione”, ma del “mangiare la comunione con il Signore” o in forma sacramentale o in forma spirituale. Sono due “modi” della manducatio ad essere in questione, almeno nella terminologia classica, che tuttavia, se esaminata nel dettaglio, riserva già di per sé notevoli elementi di interesse.
1) Duo modi manducandi corpus Christi
La distinzione classica, proposta da S. Tommaso, muove, almeno nella Summa Theologiae, dalla distinzione tra “sacramento” e “effetto del sacramento”. Qui troviamo, con una certa sorpresa, il capovolgimento della prospettiva che noi moderni saremmo portati a ritenere ovvia: ossia vi si afferma la perfezione della comunione spirituale e la imperfezione della comunione sacramentale. La prima, infatti, ha la sua pienezza di rapporto al sacramento e all’effetto, mentre la seconda può avere rapporto al sacramento ma non all’effetto. (S.Th, III, 80, 1, corpus). Nel Commentario alle Sentenze di P. Lombardo, Tommaso era stato ancora più esplicito:
“Unde cum manducatio dicat usum hujus sacramenti, quod quidem ad hoc institutum est ut quis re sacramenti potiatur; distinguetur manducatio secundum duas res hujus sacramenti: ut manducatio sacramentalis respondeat ei quod est res et sacramentum; manducatio vero spiritualis ei quod est res tantum”. (4, d.9, a1, q3)
Va aggiunto, tuttavia, che Tommaso non dimentica come questa consapevolezza – ossia il possibile attingimento della “res” al di sopra e al di là del “sacramentum” – che si realizza in modo esemplare nella “comunione di desiderio” – non leva affatto la “pedagogia dei segni”, di cui l’uomo ha strutturalmente bisogno.
Tommaso ritiene che vi sia un “reciproca sovraordinazione” del “sacramentale” allo “spirituale” e, viceversa, dello “spirituale” al “sacramentale”. Egli opera infatti una correlazione complessa tra due distinzioni fondamentali, “in sumptione huius sacramenti”: tra il sacramento/segno e l’effetto/res, da un lato; tra il sacramento in quanto tale e coloro che lo assumono, dall’altro. Potremmo allora dire che, a partire dalla seconda distinzione è facile comprendere la differenza di valutazione della prima.
In altri termini, l’uso del sacramento eucaristico deve essere considerato in modo complesso, come una “unità di segno ed effetto”. Tale unità deve essere letta, contemporaneamente su 4 piani diversi:
a) per quanto riguarda il sacramento in quanto tale, ordinariamente l’effetto è superiore al sacramento (III, 80, 1, ad1)
b) per quanto riguarda chi lo riceve, il sacramento è ordinariamente condizione pedagogica per accedere all’effetto (III, 80, 1, ad3)
c) in taluni casi, chi riceve il sacramento può con il “desiderio” attingere all’effetto senza la mediazione del segno (III, 80, 1, ad3)
d) in senso generale, la perfezione del sacramento prescinde dall’uso dei fedeli ed è totalmente “in consecratione materiae”. (III, 80, 12, ad2)
Si crea quindi una “tensione” nella quale occorre oggi contestualizzare la condizione “particolare” del divorziato risposato, non solo in quanto “singolo”, ma in quanto segnato, nel corpo, da un nuova relazione di comunione.
Potremmo formulare così la questione: la nuova relazione di comunione, il nuovo segno di comunione che il battezzato divorziato risposato vive nel suo corpo e nella sua vita, può essere messa in relazione alla “comunione al corpo di Cristo”?
Forse si potrebbe mutare la prospettiva e dire: tale condizione di “nuovo legame”può essere in rapporto con Cristo (come afferma Benedetto XVI) non “corporaliter”, ma “spiritualiter”? Si potrebbe allora invertire la prospettiva e considerare in modo nuovo la questione, sfruttando la intuizione di papa Benedetto in una direzione parzialmente diversa.
I divorziati risposati troverebbero nella “comunione sacramentale” un segno, un farmaco e un viatico per arrivare, nel tempo, alla “comunione spirituale”. Il regime di segni resterebbe “res et sacramentum”, come tensione ad una “comunione con il Corpo mistico” che è vero e pieno effetto del sacramento. Il “rapporto con Cristo”, realizzato dal sacramento, sarebbe “via” e “farmaco” per recuperare la pienezza del rapporto con la Chiesa, dalla quale pure non sono separati.
Va detto, tuttavia, che la tradizione recente, in particolare quella successiva a Familiaris Consortio 84, sembra muoversi in una direzione diversa, per non dire opposta: ossia sostiene che la “comunione alla res” rimane, anche se la “comunione al sacramentum” non è possibile, a causa di una contraddizione tra vita del soggetto e verità dell’eucaristia. Una tensione delle categorie, che qui appare manifesta, ci spinge a indagare più a fondo.
Consideriamo anzitutto la affermazione nuova di FC 84, per cui i divorziati risposati “non sono separati dalla Chiesa”: se la mettiamo in parallelo alla affermazione tradizionale per cui essi “non possono accedere alla comunione sacramentale” dobbiamo costatare, nell’ambito del linguaggio classico della tradizione, una contraddizione patente e senza via di uscita. La grande intuizione contenuta in Familiaris Consortio, tuttavia, nell’aprire “alla comunione ecclesiale la “vita di comunione dei nuovi legami” costituisce un punto di avanzamento paradigmatico della tradizione, rispetto al quale il resto del testo, inevitabilmente – ma anche la nostra stessa recezione di esso – non riesce a “tenere il passo”. Salvaguardare quella “apertura” esige, precisamente, un ripensamento del rapporto tra “comunione ecclesiale” e “comunione eucaristica”. Dobbiamo chiederci: può esservi una forma della comunione ecclesiale che non debba assumere, presto o tardi, prima o poi, forma eucaristica piena? Se il battezzato viene persuaso a sentirsi “in comunione con la Chiesa” e “non separato da essa”, come potrà, prima o poi, non sentirsi abilitato ad accedere alla “intimità visibile di comunione con il Signore”?
Per rispondere a questa domanda, la prospettiva moderna – che si sviluppa dopo il Concilio di Trento e che arriva fino al Concilio Vaticano II – tende ad attribuire all’effetto intermedio (ossia alla “res et sacramentum” della presenza del corpo di Cristo sotto le specie del pane e del vino) il valore di “compimento”, mentre riduce la “res” (ossia la “comunione ecclesiale) a punto di passaggio e quasi ad una “tappa”.
Se noi potessimo recuperare appieno il linguaggio e la logica sacramentale della tradizione scolastica, applicandolo al nostro tempo con tutte le sue diversità, dovremmo dire, invece, che la appartenenza dei divorziati risposati a Cristo “nel sacramento” deve ancora maturare nella pienezza della relazione ecclesiale. La “manducatio sacramentalis” non è, per Tommaso, il “premio formale ad una appartenenza anonima”, ma anche sempre la “mediazione, il farmaco e la via” per rendere veramente spirituale la relazione con il corpo di Cristo.
Potremmo allora variare la intuizione di papa Benedetto, integrandola con la determinazione di papa Francesco ad una riscoperta della “comunione sacramentale” come farmaco (come “medicina per chi è in cammino” piuttosto che come “certificato di piena salute”) e sincronizzarla con questa lettura tradizionale del rapporto tra “sacramento” e “Chiesa”, formulando così l’esito provvisorio del nostro approfondimento:
“ Anche senza la pienezza ‘spirituale’ del sacramento, possiamo essere “sacramentalmente” uniti a Cristo nel suo corpo eucaristico”.
Il sacramento riscoprirebbe così la pienezza del suo carattere di “segno”, di “farmaco” e di “viatico”, aprendo su un percorso, su un itinerario che non sarebbe più soltanto “itinerario penitenziale”, ma anche “itinerario eucaristico”. Non solo nel fare penitenza, ma anche nel vivere l’eucaristia, restiamo “in via”, rimaniamo “viatores”.
2) Il Concilio di Trento, la comunione spirituale e la efficacia penitenziale del sacramento eucaristico: una triplice eredità
La rilettura tridentina della tradizione patristica e scolastica risente, come è ovvio, della tensione con le tesi avanzate dal protestantesimo. In tal modo si ricostruisce la dialettica tra “sacramentale” e “spirituale” che abbiamo già notato nella sintesi tomista, ma secondo una forma che riserva al sacramentale un valore al contempo “residuale” e “stutturale”: ossia, il livello “semplicemente sacramentale” diventa inespressivo della verità, perde la dimensione pedagogica, ma è solo occasione di “peccato”2.
La rilettura che ne offre il Catechismo tridentino interpreta in modo “apologetico” il livello del “sacramentum tantum”, perdendone la logica “pedagogica” che era così tipica della tradizione medioevale3.
Tuttavia, se leggiamo non la Sessione XIII del Concilio di Trento, dedicata al sacramento, ma la Sessione XXII, dedicata al sacrificio, vi troviamo una “logica” della comunione spirituale motivata, precisamente, nel difendere una pratica celebrativa allora ritenuta insuperabile4.
La definizione della “comunione spirituale” avviene “per differenza”. Ed è sostanzialmente condizionata dalla possibilità di “riservare il rito di comunione sacramentale soltanto al sacerdote”, a contestazione della pretesa (luterana) di identificare addirittura la “presenza del corpo di Cristo” nel rito di comunione della assemblea.
La storia moderna è segnata da questa determinazione “apologetica” della “comunione spirituale”, che salvaguarda ad un tempo due istanze: la irriducibilità della comunione ecclesiale al sacramento consumato e la legittimità del sacramento celebrato senza comunione sacramentale del popolo.
Va infine ricordato un terzo elemento, ossia che il Concilio di Trento afferma anche il valore “penitenziale” della celebrazione eucaristica: partecipando “cum vero corde ac recta fide, come metu ac reverentia, contriti et poenitentes” alla celebrazione del sacrificio eucaristico, Dio “placato dall’offerta concede il dono e la grazia della penitenza e crimina et peccata etiam ingentia dimittit” (sessio XXII, De sanctissimo missae sacrificio, caput II).
Questa è la terza dimensione del Concilio Tridentino che risulta rilevante per la discussione attuale. Essa mostra una comprensione “dinamica” della eucaristia, in cui la dimensione sacramentale acquista il rilievo di “via” per affrontare le crisi di fede, legate al peccato, anche quando esso sia di grave entità.
3) Le logiche della ripresa moderna e i loro limiti attuali.
Un utile confronto con questa lettura di Tommaso e del Concilio di Trento può essere quello di compulsare il Dictionnaire de Théologie catholique, dove, a firma di H. Moureau troviamo le due colonne dedicate al tema “communione spirituelle”, che si rifanno alla tradizione scolastica e alla rilettura tridentina, ma in un clima spirituale ed ecclesiale assai mutato.
D’altra parte, nel Catechismo di Pio X il tema della “comunione spirituale” non sta sotto il titolo della “comunione”, ma sotto il “santo sacrificio della Messa”. Dunque riguarda non il sacramento, ma il sacrificio! E recita così:
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“668. Che cosa è la Comunione spirituale?
La Comunione spirituale è un gran desiderio di unirsi sacramentalmente a Gesù Cristo dicendo, per esempio: Signore mio Gesù Cristo, io desidero con tutto il cuore di unirmi a Voi adesso e per tutta l’eternità; e facendo i medesimi atti che si fanno avanti, e dopo la Comunione sacramentale”.
Leggendo questo testo si ha l’impressione che la pratica del non comunicarsi durante la celebrazione del SS. Sacrificio della Messa sia l’orizzonte ovvio di queste disposizioni. A queste prassi lo stesso Pio X avrebbe posto rimedio in modo strutturale, inaugurando nuove modalità della comunione eucaristica nella Chiesa. Pio X non ha esitato a modificare la “disciplina” in ordine ad una nuova evidenza della dottrina eucaristica sulla unità tra sacrificio della messa e comunione sacramentale.
Ora è evidente che la “vigilanza pastorale”, con cui Pio X ha profondamente innovato la prassi della Chiesa, potrebbe continuare ad esprimersi anche un secolo dopo di lui, operando una necessaria ricomprensione del rapporto non tanto tra “comunione spirituale” e “comunione sacramentale, quanto tra “comunione eucaristica” e “comunione ecclesiale”.
4) ALCUNE PROPOSTE CONCLUSIVE
a) La prassi della “comunione spirituale”, sviluppatasi nel medioevo e nella età moderna, aveva come presupposto la “rarità” della comunione sacramentale. Un “uso differenziato” del sacramento si giustificava, anzitutto, in una pratica ecclesiale assai differente rispetto a quella che da un secolo – dopo Pio X – è profondamente mutata;
b) Occorre distinguere la “comunione spirituale” – come “uso e manducatio del sacramento” – dalla “devozione alla presenza reale”, che costituisce uno sviluppo autonomo della pratica ecclesiale, anche se non priva di relazioni sia con la teoria del sacramento sia con il modo di considerarne la efficacia.
c) In rapporto al “sacramento del matrimonio”, la prassi tradizionale e differenziata di “comunione eucaristica” entra in relazione con la affermazione di FC 84 circa la “comunione ecclesiale” dei fedeli divorziati risposati. Questa fondamentale acquisizione, maturata nel 1981 con la Esortazione Apostolica Postsinodale di Giovanni Paolo II, determina il compito – teologico e pastorale – di correlare diversamente tre livelli della comunione: comunione sacramentale, comunione spirituale e comunione ecclesiale. Questa acquisizione è frutto di un Sinodo e rimanda la questione ad un Sinodo successivo, 35 anni dopo.
d) Se da un lato viene meno il “motivo fondamentale” della distinzione tra “sacramentale/spirituale”, a causa di una evoluzione della pratica ecclesiale eucaristica, d’altro canto emerge con maggior urgenza una distinzione tra “sacramentale/ecclesiale”, e per questo occorre recuperare non solo le ragioni della inesauribilità della comunione ecclesiale rispetto alla esperienza sacramentale, ma anche le ragioni di una lettura pedagogica e terapeutica del rapporto sacramentale rispetto al rapporto ecclesiale.
e) Si può dunque concludere che, sulla base del nuovo assetto che la questione della comunione assume dopo il dettato di FC 84, si dovrebbe riprendere in questa direzione una diversa distinzione:
– da un lato, la tradizione ecclesiale distingue anche oggi tra “comunione sacramentale” e “comunione ecclesiale”, non ritenendo che la prima sia assoluta condizione della seconda, se è vero che i “divorziati risposati non sono separati dalla Chiesa” pur essendo loro impedita la comunione sacramentale;
– dall’altro, sulla base della tradizione scolastica e tridentina, si potrebbero recuperare due elementi che negli ultimi due secoli sono rimasti in secondo piano, ossia:
A) il valore “pedagogico” del sacramento rispetto alla “res” – configurando la possibilità di un “itinerario eucaristico” accanto ad una “itinerario penitenziale” per tutti i battezzati, ivi compresi anche i divorziati risposati;
B) la riscoperta della efficacia che la celebrazione eucaristica (comprensiva della comunione sacramentale) esercita anche rispetto al peccato grave (secondo quanto stabilito dalla Sessione XXII del Concilio di Trento).
Si tratta, in fondo, di elaborare categorie adeguate non solo per “permettere di accedere ad una comunione possibile”, ma anche per “riconoscere le forme di comunione reale”.
1Cfr. G. Pani, La comunione spirituale, “La Civiltà Cattolica” 3957 (2 maggio 2015), 224-237.
2Ecco il testo del Concilio Tridentino, dalla Sessione XIII, cap VIII: “
Dell’uso di questo ammirabile sacramento: “Quanto al retto e sapiente uso, i nostri padri distinsero tre modi di ricevere questo santo sacramento. Dissero, infatti, che alcuni lo ricevono solo sacramentalmente, come i peccatori. Altri solo spiritualmente, quelli, cioè che desiderando di mangiare quel pane celeste, loro proposto, con fede viva, che agisce per mezzo dell’amore, ( Gal 5,6 ) ne sentono il frutto e l’utilità. Gli altri lo ricevono sacramentalmente e spiritualmente insieme, e sono quelli che si esaminano e si preparano talmente prima, da avvicinarsi a questa divina mensa vestiti della veste nuziale. ( Mt 22,11-14 )”
3 “229. Tre modi di ricevere l’Eucaristia
Si deve poi insegnare chi siano quelli che sono in grado di ricevere i grandi frutti dell’Eucaristia ora ricordati. Ed è necessario prima di tutto spiegare che ci sono varie maniere di comunicarsi, affinché i fedeli desiderino la migliore. Sapientemente i Padri nostri, come leggiamo nel Tridentino, hanno distinto tre modi di ricevere questo divino sacramento. Taluni, e cioè i peccatori, ricevono soltanto sacramentalmente i sacri misteri, in quanto non hanno terrore di riceverli con labbra e cuore impuri. Di costoro l’Apostolo ha detto che mangiano e bevono indegnamente il corpo e il sangue del Signore (1Co 11,29). E sant’Agostino ha scritto che colui, il quale non si trova in Cristo e Cristo in lui, non mangia certo spiritualmente la sua carne, sebbene in modo carnale e visibile stringa con i denti il sacramento del suo corpo e del suo sangue (In Jn tratt. 26,18). Coloro pertanto che, cosi mal disposti, ricevono i sacri misteri, non solo non ne traggono frutto, ma, per sentenza di san Paolo, mangiano e bevono la propria condanna (1Co 11,29).
Altri ricevono l’Eucaristia solo spiritualmente; e sono quelli che, animati dalla fede viva che opera per mezzo della carità (Ga 5,6), si nutrono di questo pane celeste con i desideri e i voti ardenti, riportandone se non tutti, certo i più grandi vantaggi. Vi sono infine altri che ricevono l’Eucaristia sacramentalmente e spiritualmente: e sono quelli che, seguendo l’avviso dell’Apostolo, hanno prima provato se stessi e indossato la veste nuziale, per poi avvicinarsi alla sacra mensa, riportandone tutti i copiosi e utilissimi benefici sopra ricordati. E evidente però che si privano di beni immensi e celesti coloro che, pur potendosi preparare a ricevere il sacramento del corpo del Signore, si contentano di riceverlo solo spiritualmente”.
4“Capitolo VI: Desidererebbe certo, il sacrosanto sinodo, che in ogni messa i fedeli che sono presenti si comunicassero non solo con l’affetto del cuore, ma anche col ricevere sacramentalmente l’eucaristia, perché potesse derivarne ad essi un frutto più abbondante di questo santissimo sacrificio. E tuttavia, se ciò non sempre avviene, non per questo essa condanna come private e illecite quelle messe, nelle quali solo il sacerdote si comunica sacramentalmente, ma le approva e quindi le raccomanda, dovendo ritenersi anche quelle, messe veramente comuni, sia perché il popolo in esse si comunica spiritualmente, sia perché vengono celebrate dal pubblico ministro della chiesa, non solo per sé, ma anche per tutti i fedeli, che appartengono al corpo di Cristo.”