Una grande burocrazia e il suo capo-struttura. In dialogo con Marco Marzano, “La Chiesa immobile. Francesco e la rivoluzione mancata”
“Un anziano prete affezionatissimo all’identità cattolica tradizionale, il servitore fedele di una identità clericale che ha coltivato per un’intera vita, il primo boicottatore di ogni vera riforma strutturale dell’istituzione” (155-156): questa definizione forte, dedicata non al Card. Burke, ma a papa Francesco, chiude il volume del sociologo Marco Marzano, La Chiesa immobile. Francesco e la rivoluzione mancata, Bari, Laterza, 2018. Il libro si legge d’un fiato, è scritto con brillante scioltezza ed è fortemente provocatorio. Dipende, in radice, da alcune tesi di carattere strettamente sociologico, che tuttavia, pur cogliendo dinamiche reali, con le quali è bene confrontarsi apertamente, non permettono di cogliere il centro della identità di papa Francesco e della stessa Chiesa di cui egli è a capo. Applicando alla lettura della sua azione pastorale, del contesto ecclesiale in cui si colloca e delle idee fondamentali che propone uno schema meramente esteriore e funzionale – ispirato dalla sociologia della organizzazione – l’autore progetta di trattare la Chiesa come un “oggetto di indagine” affine ad Amazon, al Terzo Reich o a un Partito politico. Ma il risultato – che avrebbe la pretesa della obiettività e della verità, da contrapporre fieramente ai luoghi comuni di progressisti e di conservatori – mi sembra che approdi ad una lettura certo possibile, non poco utile, forse anche necessaria, ma del tutto insufficiente, e in una certa misura non immune da una certa distorsione.
Ma procedo per ordine: prima presento, il più possibile sine ira ac studio, l’impianto del volume, per procedere in un secondo momento alla sua discussione e infine alla indicazione di alcuni “punti ciechi” della analisi ivi contenuta.
Struttura e tesi fondamentali del volume
Tre sono i capitoli su cui il testo è costruito. Dopo una gustosa introduzione sintetica, col titolo già di per sé significativo Il mistero di un papa già santo (VII-XIV), il primo capitolo si intitola Francesco il riformatore mancato (3-56) e ripercorre i primi cinque anni di pontificato su quattro versanti sensibili della “riforma”: la curia romana, la morale sessuale, la questione femminile e il celibato ecclesiastico. Su ciascuno di questi quattro punti l’esame condotto da Marzano individua un disegno “dei riformatori” e una “resistenza conservatrice”, rispetto a cui Francesco manterrebbe una posizione sostanzialmente tradizionale. Anche dove più chiara appare la discontinuità, la si ammette solo a costo di ridimensionarla. Il capitolo si chiude, perciò, con la costatazione che “una riforma della Chiesa è assai sconsigliabile e controindicata per chi ha davvero a cuore il suo futuro” (56). Questo è anche il tema centrale del secondo capitolo, che si intitola Perché la chiesa non cambia (57-92), nel quale un’analisi sociologica sulla Chiesa come “organizzazione burocratica” conduce Marzano a mettere in questione la esigenza di Riforma, a ragionare sulla secolarizzazione occidentale e sulla espansione del cattolicesimo nel sud del mondo e a paventare la “dissoluzione della comunione anglicana” come un incubo concreto della via riformatrice eventualmente assunta dalla Chiesa cattolica. Si giunge così al terzo capitolo, Francesco e l’amicizia come politica (93-143), in cui l’autore torna ad esaminare il pensiero e la figura del papa, sulla base del principio sociologico della “disgiunzione delle strutture”, che secondo la scienza della organizzazione permette di introdurre una “distrazione” all’interno del sistema: in questo modo una serie di contenuti importanti del Magistero di Francesco possono ora presentarsi come modalità per distrarre dal fatto che le riforme non vengano attuate. Tali “contenuti” sono: l’anticapitalismo e la “politica della amicizia” sia ad extra (altri cristiani) sia ad intra (teologia della liberazione e lefebvriani). A ciò si unisce una gustosa lettura sia degli “oppositori”, che contribuirebbero a far pensare, illusoriamente che papa Francesco stia effettivamente modificando il sistema, sia dei “supporters”, che raccontano la favola delle opposizioni interne, che non permetterebbero a Francesco di attuare le riforme. Nelle Conclusioni (144-156) si afferma recisamente che “la Chiesa resta immobile e anche quest’ultima occasione per cambiarla è sfumata” (144).
Il paradosso e il formalismo
Per tentare una valutazione equilibrata di questa lettura vorrei iniziare dal metodo utilizzato. L’autore è, come abbiamo detto, professore di Sociologia. Una lettura sociologica della figura del papa e della Chiesa che egli guida è un grande arricchimento anche per la coscienza ecclesiale, ma non può “ridurre” la Chiesa ad altro da ciò che è, non può semplificarne troppo la struttura. Intendo dire che, per quanto siano utili e rilevanti le osservazioni condotte sul papa e sulla struttura ecclesiale, se non si tiene conto del rapporto che il Papa e la Chiesa mantengono con il Vangelo e con la vocazione, con il discepolato e con il popolo di Dio, con l’alfa e l’omega , sarà difficile uscire da una lettura parziale e distorta.
Vorrei osservare, sempre dal punto di vista del metodo, che il riferimento ai “contenuti cristiani” risente nel libro di un andamento paradossale: le grandi riforme, su cui Marzano misura l’apporto di Francesco, servono, nello stesso tempo in due direzioni: da un lato dimostrano che non si tratta affatto di un papa né rivoluzionario, né riformatore (e già su questo è legittimo dissentire); ma, d’altra parte, è la Chiesa stessa a non richiedere alcuna riforma, per restare pienamente se stessa.
Qui, come è evidente, il gioco argomentativo diventa assai rischioso: la critica non è semplicemente “da sinistra”, ma anche, e nello stesso tempo, “da destra”. Da sinistra, perché chiederebbe una “rivoluzione” che Francesco non può né vuole attuare; da destra, perché la Chiesa non ha alcuna profezia, se non quella di mantenere salda se stessa e la certezza istituzionale che su di essa viene socialmente proiettata. Utopia profetica e religione civile coincidono nella analisi, e finiscono per schiacciare Francesco e la Chiesa in un angolo, senza altra possibilità che quella di confermare la rilettura ottocentesca della tradizione tridentina, che si imporrebbe come una “struttura astorica” che si giustifica da sé, formaliter tantum.
Qui, allora, mi sentirei di obiettare a Marzano che le sue categorie restano quelle di una teoria istituzionale, organizzativa e politica, che dice della Chiesa solo uno “spicchio”. Senza riferimento al Vangelo e allo Spirito, senza riferimento alla Storia e al divenire, appare difficile venire a capo sia del profilo di Francesco, sia della natura della Chiesa. D’altra parte, come è bene illustrato dalle puntuali citazioni che Marzano allega in nota al suo testo, nei passaggi decisivi egli dipende da fonti sociologiche, di teoria istituzionale e politica, che orientano pesantemente il giudizio e lasciano poco spazio ai fatti, in tutta la loro complessità e ricchezza.
Dicevo che qui qualcosa del metodo di Marzano non mi convince. Soprattutto se guardiamo alla organizzazione del materiale. In effetti, a me sembra qualificante che, dopo una presentazione nel primo capitolo, da cui si desume un ritratto molto unilaterale di un “Francesco moderato” – letto sostanzialmente alla scuola di coloro che lo interpretano in continuità con i predecessori – e anche dopo un secondo capitolo, che trasforma in “necessario” ciò che prima appariva solo come “possibile” – elaborando una teoria della Chiesa come strutturalmente ferma, chiusa e immobile – il terzo capitolo presenta caratteristiche curiosamente forzate.
Mi chiedo infatti: come si può presentare ciò che è più “tipico” del magistero di Francesco – ossia quel “principio misericordia” che segna ogni intervento teorico e pratico di questo papato – come una semplice “manovra diversiva” – tecnicamente come una “distrazione” ottenuta mediante una “disgiunzione delle strutture” – per cui, di fatto, ogni contenuto evangelico, profetico, spirituale viene ridotto a sovrastruttura di un sistema istituzionale, il cui capo è tenuto a perpetuare di per sé, quasi indipendentemente da ogni “altra” logica?
Questa scelta non mi persuade e introduce un “riduzionismo” di cui soffre forse più la Chiesa che lo stesso Francesco. Esso riduce, in modo vistoso, ciò che per la Chiesa è essenziale e fontale a sovrastruttura marginale, a pretesto, a paravento, a diversivo. Questo, francamente, mi pare non solo esagerato, ma principio di una distorsione nella rappresentazione fedele della complessità ecclesiale, cui pure Marzano sembra seriamente interessato.
Alcuni punti ciechi
Nelle pagine iniziali Marzano, correttamente, prende le distanze dalle strumentalizzazione “da destra” che le sue critiche “da sinistra” potrebbero subire. Ma qui a me pare che qualcosa di decisivo venga trascurato. Se giudico la Chiesa e il papa indipendentemente dal Vangelo, riducendo ogni “contenuto” a strategia istituzionale, contraddico, radicalmente, una delle parole più decisive non solo del papato d Francesco, ma di tutta la storia della Chiesa. Ossia il superamento della “autoreferenzialità”.
Mi chiedo: in tutto questo, la passione di Francesco per il Vangelo, dove sta? Perché, a tal proposito, Marzano assume così acriticamente il luogo comune del “disinteresse” di Francesco per la teologia? Egli forse non sospetta neppure che in questi 5 anni, noi tutti abbiamo ascoltato, in diverse occasioni, una teologia molto più fine e più fresca, più acuta e più coraggiosa di quella che avevamo sentito, dai vertici ecclesiali, nel precedente mezzo secolo? Può essere semplicemente trascurato il fatto che un papa, più di 50 anni dopo il Concilio Vaticano II, in soli 5 anni, abbia messo in moto, contemporaneamente, una ristrutturazione della curia romana, una ripensamento della morale familiare e sessuale, un rinnovamento nel modo di pensare il ruolo delle donne sia come ministri, sia come mogli di ministri?
Il gioco di Marzano – che in parte dipende dal suo metodo sociologico, in parte dall’utilizzo di fonti non del tutto disinteressate – funziona così: da un lato chiede a Francesco una sorta di palingenesi della Chiesa. E non la ottiene, ovviamente. Viceversa, quando qualcosa muta effettivamente, allora cerca di trovare “precedenti” anteriori a Francesco, per negare che la novità sia così nuova. Esemplari sono, nelle pagine finali del libro, le lunghe citazioni di Caffarra e Pierantoni contro il testo di AL. Si citano le posizioni estreme, per dimostrare che in realtà AL non ha minimamente cambiato la “costituzione materiale” della Chiesa, dunque di una istituzione che sembra prescindere non solo da Francesco, ma dal Vangelo stesso!
Viceversa, Francesco, ad es. nello straordinario discorso tenuto al Collegio degli scrittori della “Civiltà Cattolica”, ha saputo parlare di 3 caratteristiche del teologo – irrequietezza, incompletezza e immaginazione – con una forza e con una profondità quasi inaudite, che mai si troverebbero in “precedenti” magisteriali. Qui la differenza è differenza di linguaggio. Linguaggio però inteso non come espressione o come diversivo, ma come esperienza o come sostanza. Ciò che mi sarei aspettato, proprio da un sociologo, è una attenzione più viva per la “traduzione della tradizione” che Francesco, da cinque anni, persegue coraggiosamente e coerentemente nel suo magistero. Ciò dipende, anzitutto, dall’uso di un “linguaggio diverso”, in cui la Chiesa possa riconoscersi non anzitutto come “struttura” o “burocrazia”, ma come “popolo” e come Sposa.
Questa Sposa del Signore, se vuole seguire il suo Capo e Maestro – che non è il Papa – deve essere disposta a muoversi, deve saper tornare a prendere l’iniziativa. Così è sempre stato. Talora nella forma del movimento di un ghiacciaio; talaltra nella libertà di una “piuma al vento”. Quando lo Spirito soffia, la Chiesa non resta, ma va, non si ferma, ma si muove. Questa mobilità le ha assicurato di poter camminare, per tanti secoli, in mezzo alla storia. Francesco e la sua Chiesa non sono immobili. Non possono esserlo, perché strutturalmente non sono “per sé”, ma “per altro”. Purtroppo questo poderoso richiamo ad essere “per altro”, che è tanto centrale in Francesco, nel libro non ha trovato spazio alcuno. Se il papa guarderà nello specchio del libro, potrà apprezzarvi molte cose, ma non vi si riconoscerà.
Per questo motivo fondamentale, alla fine di questa vivace lettura, comunque sempre stimolante e piena di forza, anche quando è criticabile, mi viene da dire, quasi da cantare: “La Chiesa è mobile, qual piuma al vento”; per seguire il suo Signore essa “muta d’accento e di pensier”. Così è accaduto tante volte lungo la storia. Così è avvenuto anche nel Concilio Vaticano II, e Francesco da tale Concilio ha imparato non a fare la rivoluzione – che sarà sempre irrimediabilmente “mancata” – ma a promuovere la riforma, di cui la Chiesa ha sempre vissuto. E di essa dovrà vivere ancora, in forme nuove e sorprendenti, senza aver paura della loro meravigliosa complessità, senza lasciarsi incantare né dalle vibranti ritrosie di monsignori navigati, né dalle studiate teorie di sociologi attenti.