una questione aperta


Sulla “doppia forma” del rito romano

Nel dibattito che si sta svolgendo intorno alla questione aperta dal Motu Proprio “Summorum Pontificum” mi pare che emergoao, progressivamente, sempre maggiori disagi proprio a causa del “doppio regime” incautamente introdotto dal documento del 2007, che la recente istruzione “Universae Ecclesiae” della Commissione Ecclesia Dei ha ulteriormente accentuato e imprudentemente peggiorato. Se anche i principi della Chiesa e lo stesso Vescovo di Roma manifestano apertamente il loro disagio per questo assetto– sorprendentemente derivato da documenti di cui loro stessi sono stati gli artefici – bisogna riconoscere che in settori non direttamente coinvolti con le responsabilità e con il dibattito liturgico vengono espresse ragioni di perplessità che acquistano, gioprno dopo giorno, sempre maggiore peso. E’ il caso di queste espressioni di perplessità, che un caro amico romano, impegnato in incarichi di grande responsabilità ecclesiale, mi ha manifestato e che qui riporto come contributo al dibattito. Sono assai significative proprio perché vengono dall’esterno del mondo dei “liturgisti” e perciò acquistano ancora più forza. Ascoltiamolo:

“Tra le tante critiche che si possono muovere alla “riforma nella riforma” ce n’è una che, a mio giudizio, andrebbe valorizzata, ma non la ho trovata mai formulata in nessun articolo o commento. La norma per cui «I fedeli che chiedono la celebrazione della forma extraordinaria non devono in alcun modo sostenere o appartenere a gruppi che si manifestano contrari alla validità o legittimità della Santa Messa o dei Sacramenti celebrati nella forma ordinaria » (Universae ecclesiae 19) sancisce implicitamente un criterio: cioè che la liturgia possa essere “scelta a gusto dei fedeli”. Se infatti uno deve riconoscere che tutte e due le forme sono ugualmente valide, implicitamente si considera – stavolta sì, davvero! – la liturgia non come qualcosa di “donato da Dio alla sua Chiesa”, ma come qualcosa di “eleggibile” dal singolo fedele o da gruppi di fedeli (per quanto stabiliter exsistentes). Insomma, si ingenera la confusione di mettere la liturgia sul piano commerciale delle cose che possono essere scelte non per un motivo teologico oggettivo, ma per un motivo (estetico?) soggettivo, individuale o condiviso: oggi mi va così, domani mi piacerà colì, e dopodomani chissà. Nella libertà cristiana invece le scelte si compiono secondo verità. Anche la vocazione, mi pare, dovrebbe essere scelta per obbedienza alla verità che fa liberi e non per capriccio individuale. Consegnare la celebrazione dei divini misteri al capriccio soggettivo mi pare un rimedio maggiore del male. A meno che l’arrière pensée non sia invece che solo una delle due forme sia quella “buona e giusta”, cioè vera, al di là dei giochi di parole… Quindi, delle due, una: o si tratta di un trucco, e in realtà si ritiene che solo la forma antica sia quella valida, oppure si ingenera un relativismo che forse è più grave degli abusi liturgici stessi (che purtroppo, lo sappiamo, ci sono stati e ci sono) e o della sciatteria banalizzante”

Che dire? Non si può proprio negare il buon fondamento di queste osservazioni. Le quali, in fondo, derivano tutte da quello che bisogna considerare il vero “monstruum giuridico” originario, ossia la pretesa di co-vigenza di due leggi/due messali, di cui il secondo ha evidentemente voluto emendare, correggere e sostituire il primo. Altrimenti si ingenera un “primato dell’attaccamento soggettivo” che, come rilevava acutamente l’osservazione citata, costituisce un relativismo più grave di ogni abuso, perché fraintende l’uso e altera il rapporto originario con l’atto rituale. Alla lex orandi e alla lex credendi sostituisce una “lex sentiendi” che tutto può essere, meno che autentica esperienza ecclesiale.

Share