Vaticano II – una rilettura illuminante


La recezione del Vaticano II : la lettura di Theobald

Per orientare il dibattito sul concilio Vaticano II, che spesso risente di opinioni formulate sulla base di pregiudizi o di chiacchiere senza controllo, il volume di C. Theobald, La recezione del Vaticano II. 1. Tornare alla sorgente (Bologna, EDB 2011), costituisce un punto di riferimento importante, strutturato secondo logiche assai meditate e capace di far riflettere tutti coloro che vogliano lasciarsi ancora insegnare qualcosa dalla grande assise conciliare apertasi cinquant’anni fa.
Riporto soltanto alcune frasi, tratte dalle pagine finali del volume, quasi per dare il gusto della lettura a tutti coloro che vogliano approfondire il senso e la portata di questo evento fondamentale della tradizione cristiana recente.

«L’unità è data forse da una sintesi dell’insegnamento del Vaticano II sulle istituzioni della Chiesa, la sua liturgia e la sua dottrina, come ha supposto la recezione ufficiale e pratica, basandosi sulla posizione di coloro che – Paolo VI in primis – hanno considerato la Chiesa come argomento principale del concilio? O bisogna piuttosto seguire quelli che, come il relatore di Dei Verbum, considerano il prologo della Costituzione dogmatica sulla Rivelazione come introduzione e principio di tutti gli altri testi conciliari?
Dinanzi a questa alternativa, abbiamo scelto di descrivere il corpus conciliare sulla base dei preamboli e delle introduzioni delle quattro Costituzioni, il che articola una struttura a due assi: l’asse teologale o verticale, che è quello della Rivelazione e della sua recezione per fede, e l’asse orizzontale o sociale, che è quello della comunicazione tra la Chiesa e tutte le componenti della società, cioè delle società umane nella loro estensione mondiale. Introdotto da Giovanni XXIII nel suo discorso di apertura, il principio di pastoralità si colloca al crocevia tra questi due assi e rappresenta in qualche modo il punto focale in cui si costituisce l’unità interna del corpus.
Vivendo nella storia e nella società, la Chiesa occupa di certo un posto essenziale in tale dispositivo, ma essa si trova decentrata grazie a una doppia alterità: quella della Parola di Dio, che essa ascolta, e quella dei destinatari di tale Parola, che le rimandano la sua stessa eco, dato che essa è già all’opera in loro […].
Il principio di pastoralità è stato di fatto consegnato all’assemblea da Giovani XXIII nel suo discorso Gaudet mater Ecclesia […]. Il punto nodale è rappresentato dal ripercorrere l’itinerario di recezione conciliare di questo principio, un itinerario che consiste nel mettere gradualmente in luce tutte le sue implicazioni, la sua dimensione ecumenica, l’esigenza di autoriforma e il rispetto dei recettori del Vangelo e del loro radicamento culturale […]. Abbiamo potuto identificare i testi più prossimi al principio di pastoralità che va precisandosi nei dibattiti conciliari: la Costituzione dogmatica Dei Verbum, l’esposizione preliminare e altri passi preliminari della Costituzione pastorale Gaudium et spes sulla lettura dei “segni dei tempi” e la Dichiarazione Dignitatis humanae sulla libertà religiosa come paradigma di un tale discernimento […].
Giovanni XXIII cercava analogie nella tradizione e noi continuiamo a esitare in rapporto all’identità del Vaticano II: una questione che il papa aveva risolto con il suo riferimento alla Pentecoste. È il processo storico della mondializzazione (DV1 e LG1) che obbliga la Chiesa a prendere posizione sull’insieme delle questioni che le vengono poste in funzione di un’identità cristiana da “ridefinire” nel suo insieme, affinché essa e i cristiani possano, nel contesto ormai globale, trovare il “modo” che conviene all’annuncio del Vangelo. Questo atto di “reinquadramento” è unico nella storia del cristianesimo, anche se viene già annunciato al tempo della prima mondializzazione e al concilio di Trento. È a questo titolo che lo si deve dire “profetico” […].
Quando nel 2001 Giovanni Paolo II presenta il Vaticano II come “la grande grazia di cui la Chiesa ha beneficiato nel XX secolo”, avendo fatto riferimento nel 1994 al “tono nuovo, sconosciuto prima di allora con il quale le questioni sono state presentate dal concilio”, possiamo comprendere questa grazia come quella della profezia neotestamentaria. Se oggi ci interroghiamo su ciò che ci è dato di attenderci dall’opera del Vaticano II, il riferimento a questa grazia è senz’altro la risposta ultima.
Ora questa risposta esige, nella logica del principio di “pastoralità” e dell’intreccio relazionale che esso implica, che i recettori del Concilio siano essi stessi – fino alla fine – messi in grado di entrare liberamente in tale attesa e in un modo di vivere il modus agendi di Cristo. Il terzo risultato del nostro percorso consiste nell’aver dato rilievo a tale scommessa pedagogica del Vaticano II. La sua recezione canonica, liturgica e dottrinale ne è stata senz’altro un po’ eclissata. […]. Per varie ragioni i movimenti biblici, liturgici, catechetici, apostolici, sociali ecc., che hanno sorretto per buona parte il concilio, si sono indeboliti nel periodo postconciliare […].
Di qui la necessità di rivisitare le pratiche pastorali suggerite dal concilio e di mettere in evidenza la loro unità interna. In nome di ciò che è, la fede cristiana non può rinunciare al discernimento dei segni messianici praticato da Gaudium et spes e Dignitatis humanae. Questa pratica rappresenta l’altro versante di una certa lettura attuale delle Scritture richiesta dal cap. VI di Dei Verbum. L’uno e l’altro versante sono inseparabilmente legati, come lo sono Gesù Cristo e i tempi messianici. È però impossibile andare a fondo in queste due pratiche, basate su una capacità di ascolto e di apprendimento e orientate a una conversione permanente, senza un’iniziazione spirituale che dia accesso all’interiorità e, ultimamente, al “colloquio” tra Dio e l’uomo, nella solitudine e nella liturgia.
Solo questa triplice pratica pedagogica permetterà alla recezione conciliare di varcare una nuova soglia. La principale scommessa della pastorale è quindi quella di creare degli “spazi” in cui la grazia “profetica” del Vaticano II possa essere recepita».

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