Virus e filosofia: una rassegna (di Giuseppe Villa)


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Il tema della “pandemia” ha attirato quasi subito la attenzione dei filosofi. Oltre al dibattito suscitato da G. Agamben, altri autori sono intervenuti. Giuseppe Villa, che ringrazio, ci offre una rassegna di questi interventi.

Il Virus che ci compete e la filosofia che vi compete

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Da un paio di mesi viviamo in una situazione precaria per la diffusione di un virus, il COVID 19. La diffusione è avvenuta progressivamente e in progressione sono state anche introdotte dal Governo le misure di contenimento, in particolare l’isolamento in casa, in famiglia. A metà marzo l’Organizzazione Mondiale della Sanità ha dichiarato che siamo in uno stato di “pandemia globale”.

Nella vita delle persone si è diffusa la paura di una malattia grave e della morte, minacciando i punti di riferimento familiari e di un mondo di relazioni che fanno la vita delle persone. In una società sviluppata del Ventunesimo secolo, si poteva credere che le epidemie, che hanno segnato la storia, fossero ormai dietro di noi. C’è voluto un po’ di tempo per riconoscere l’entità del pericolo e i suoi effetti devastanti, che non sarebbero rimasti limitati ai paesi lontani e avrebbero colpito, a vari gradi, tutte le generazioni.

Questo virus ha mostrato una capacità, un’aggressività e velocità di movimento da chiedere l’intervento di numerose competenze, in primo luogo del personale medico e scientifico, ma anche della protezione civile, degli ordinamenti statali, dei sociologi e degli psicologi. Anche i filosofi si sono fatti avanti per dire la propria, qualcuno in maniera precipitosa. E mi riferisco all’intervento di Agamben (riportato dal Prof. Grillo nel suo intervento), che in nome di un principio astratto, non ha saputo considerare il bene possibile.

Altri filosofi sono intervenuti con maggior ponderazione, riconoscendo che «nessuno sa come potrà evolversi la pandemia. … Nemmeno la rapidità con cui la pandemia purifica l’aria delle regioni che paralizza riesce a suggerirci come trovare un nuovo orientamento tecnico e industriale» (Jean-Luc Nancy).

Lo stesso filosofo cita un certo signor Gaudin, che si presentava come «chimico filosofo»: nel 1865 scriveva: «Se si ammette l’opinione comune, la nostra epoca ha visto sorgere una moltitudine di malattie sconosciute ai nostri antenati; ma è molto probabile che queste malattie, un tempo localizzate, si siano disseminate grazie alla frequenza e alla rapidità delle comunicazioni che collegano oggi le contrade più distanti».

In quel secolo si trattava di colera, che ha attraversato tutta l’Italia e a più riprese per un secolo. Thomas Mann ne scrive nel romanzo “Morte a Venezia”, pubblicato nel 1912, in cui una misteriosa malattia (che poi si scoprirà essere il colera) si diffonde tra i turisti in quel “paradiso”. Il protagonista, Ashenbach, scopre che la malattia è arrivata dall’India e prima di raggiungere il Mediterraneo e Venezia si era diffusa in tutta l’Asia.

I due dati, concordi nel segnalare l’intreccio moderno di “mobilità” – “connessioni”, quale “supporto” umano alla diffusione del colera, si presentano come una questione prettamente filosofica, nel senso che «questo virus è competente, non solo nel senso che pare proprio saperla lunga, ma nel senso che ci compete, sta all’altezza dei nostri tempi e ci costringe a ridisegnare le nostre categorie storico-temporali» (Marco Senaldi, filosofo). L’affermazione esclude dal dibattito altre forme di epidemie come la peste, il vaiolo e l’AIDS, ciascuna delle quali esprimeva un paradigma proprio di quei tempi.

La filosofia è pressoché concorde su questa conclusione che vede nella competenza sulla mobilità e sulle connessioni le ragioni per cui parlarne e offrire altre piste per uno sviluppo e soprattutto per “immaginare” un dopo. Un primo effetto che il contagio ha reso evidente è il tempo che viviamo: relegati in casa senza impegni e date di scadenza il tempo appare “vuoto”. L’immagine è venuta alla ribalta con i monologhi di Stefano Massini alla TV, secondo il quale «C’è qualcos’altro del nostro rapporto con il tempo che il virus ha messo in crisi: non esisterà solo un prima e un dopo il virus, ma anche un durante. La fase transitoria non la accettiamo, non riusciamo a capirla». In realtà la questione era stata dibattuta già prima negli anni sessanta dal filosofo Martin Heidegger nella pubblicazione “Tempo e essere”, che completava l’arco del suo pensiero iniziato nel ventisette con “Essere e tempo”. Il tempo non esiste, almeno come una casa o come una successione di numeri. Il tempo si dà e si dà nell’accadere delle cose e della stessa vita degli umani. Il tempo come cronologia è un’invenzione umana dove ha messo “riunioni interminabili, statuti, regole, procedure e regolamenti interni”, componeva il poeta Andrade. Gli uomini però conoscono non solo la cronologia, chronos, ma anche l’altro modo di intendere il tempo, il kairos, appunto l’evento in cui si dà l’esistere effettivo degli umani per le proprie scelte.

Un secondo effetto creatosi con la pandemia è che lo spazio ci è stato ridisegnato, in tutti i sensi del termine. «Il Coronavirus ‒ ha scritto Marco Senaldi ‒, è capace di colpire con sospetta imparzialità anziani indeboliti, ma anche bimbi innocenti, sindaci, viceministri, magistrati, lombardi e pugliesi, a volte passando inosservato, altre volte uccidendo, scompagina le categorie e ridisegna i confini». E non è tanto un effetto collaterale della globalizzazione: di fronte a questo scenario stratificato, tridimensionale, il termine “globale” rischia di passare per un infelice attenuazione. Il fatto è che nel tempo dell’inter-connettività i disegni geografici non rendono cosa sia lo spazio oggi. È meglio la cosiddetta “connectografia” che inizia a offrire un’idea un po’ meno pallida.

La filosofia del linguaggio ha reso evidente alcuni snodi di quell’intreccio movimento-connessioni: l’alta connessione di rete, con-nessione, comunicazione, co-noscenza, tutte parole che, come con-tagio e con-tatto, si formano con il prefisso co. Il filosofo Mauro Magatti ha fatto notare che ciò ci espone anche a problemi nuovi. «È proprio perché le nostre società sono avanzate che il coronavirus si è potuto trasferire nel giro di poche settimane da una sperduta località della Cina in tutto il mondo. Ed è a causa della condivisione di una conoscenza e di una comunicazione impensabili fino a pochi anni fa che ci ritroviamo a seguire giorno dopo giorno, ora dopo ora l’evoluzione dell’infezione».

L’infittimento delle connessioni e dei contatti fisici e virtuali non sono casuali. Per il filosofo Magatti questo sviluppo dei legami è avvenuto per il potenziamento dell’io. L’Italia si è chiusa: «Una cosa impensabile fino a pochi giorni fa. Così il fantasma immunitario — di chiusura, difesa, respingimento — che da anni circola anche da noi diventa improvvisamente realtà. Costringendoci a un momento di verità». L’Italia si è chiusa, e noi ci siamo chiusi in casa: chiusi per sicurezza nostra e degli altri, chiusi temporaneamente e liberamente. È qui che la filosofia suggerisce “un momento di verità”.

Il termine latino “sicurezza” è “sine cura”. «Di fronte a tutte le insicurezze attuali scrive Magatti, l’io immunitario vorrebbe sottrarsi alla responsabilità della connessione chiedendo a qualche sistema di farsi carico, a nome suo, degli oneri che le nuove forme del con comportano. Le tecniche, le organizzazioni, le istituzioni di cui disponiamo (esse stesse forme di con) sono e restano fondamentali». È qui che occorre “un momento di verità” per evitare che la domanda di sicurezza non sia un alibi per sgravarsi dalle proprie personali responsabilità.

Ancora Heidegger ci aiuta a fare questo passo riguardante “l’essere-con”: in tutte le forme che esso può prendere il nostro “essere con” comporta la cura; la cura verso di sé, l’altro, il mondo intero. L’esperienza così drammatica del contagio di queste settimane ci dice che abbiamo ancora molta strada da fare se vogliamo reggere la co-abitazione nel mondo iperconnesso. Ma soprattutto ci insegna che ogni forma di “con” esige di riconoscere il legame originario tra l’Io e l’altro. Da ciò deriva quella responsabilità della “cura” senza la quale il “con” decade velocemente in “con-flitto”. Che dovremo poi applicare a tanti altri ambiti della nostra vita: la comunicazione (il modo in cui prendiamo la parola nei vari circuiti social e mediali), la concorrenza (il nostro rapporto col mercato), la contaminazione (tutto il tema ambientale), la comunità (il nostro modo di essere parte dei mondi social nei quali viviamo).

Don Giuseppe Villa

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