What is art for? L’arte serve ancora? A che cosa?


Girasole, van Gogh

Girasole, van Gogh


L’edizione internazionale de Il Giornale dell’Arte, The Art Newspaper fondata a Torino nel 1990 da Umberto Allemandi, ha lanciato in occasione dei suoi 25 anni la domanda What is art for?, che dovrebbe scuotere e far riflettere. Le sono stati dedicati momenti di dibattito al British Museum di Londra, al MoMA di New York, all’Ermitage di San Pietroburgo e, il 6 ottobre scorso, ai Musei Vaticani. É stato aperto anche un sondaggio al quale stanno rispondendo i lettori de Il Giornale dell’Arte, utilizzando una cedola allegata al numero di settembre. La domanda, nell’attuale contesto sociale in profonda trasformazione, non è banale e c’è da sperare che coinvolga molti, che tocchi tutti coloro che frequentano musei e mostre, che visitano città del mondo, che cercano esperienze di bellezza.

Chiede di portare alla luce, tramite quel for che ne conclude la versione inglese e che indica servizio, utilità, riferimento a soggetti che la sperimentano, il senso del fare arte, dopo un secolo e più in cui si è discusso della sua morte, delle sue mille trasformazioni, delle sue ibridazioni con i più diversi linguaggi. É domanda che dovrebbe coinvolgere persone di tutte le età e dei più vari contesti, che dovrebbe toccare in particolare gli insegnati ma anche i politici e gli amministratori delle città e che esige risposte semplici e nette.

Da parte mia rispondo così: l’arte è necessaria, è ancora oggi necessaria, anzi indispensabile, perché è il gesto, l’evento, il fatto, l’oggetto, in cui l’uomo parla di sé a tutti gli altri uomini e di sé dice ciò che altrimenti è indicibile: la domanda o l’apertura al perché ultimo della sua esistenza nel mondo, del suo venire alla luce dentro un mondo che gli preesiste e che gli offre strumenti e condizioni per esistere e per comprendersi entro un tessuto di relazioni umane che esigono responsabilità e offrono al contempo diritti.

In tutte le sue forme l’arte dice che ognuno di noi è costitutivamente ‘mistero’, che può essere sondato e persino formalmente racchiuso e fatto mergere in parole, musica, materia, ma mai esaurito una volta per tutte in esse. Non riesco a concepire l’arte al di fuori di una dimensione antropologica strettamente apparentata, forse persino coincidente, con l’umano senso religioso che ci spinge a cercare Dio, a desiderare la vita eterna, ad aspirare a una salvezza che coinvolga tutto, l’intero cosmo, e tutti gli uomini. Non riesco a scindere nettamente le due realtà: arte e mistero, o meglio: arte e uomo.

Non riesco a concepire la prima come registrazione solo estetica del rapporto umano con la realtà intera: l’arte, a mio parere, non mette in gioco un canone già definito di bello, è invece ogni volta sorpresa, scoperta, inimmaginabile rivelazione. Certo, seppur tardi e cioè solo a partire dal XVI, anche dell’arte in Occidente di è fatto storia, si è definito un racconto a tappe, si sono costruite fenomenologie complessive, consentendo continuità e contiguità di esperienze, catalogazioni, valutazioni. Sono di conseguenza sorti i musei e si è costituito quello che Malraux ha chiamato ‘immaginario collettivo’ raccolto nei libri, nelle enciclopedie, oggi in documentazione informatica.
Entro i loro inevitabili limiti strumentali, storie dell’arte e riproduzioni di ogni tipo avvicinano a noi il cammino costituito da un’infinità di momenti, al tempo stesso eredi di quanto già si era acquisito e comunque sempre nuovi, inediti. Essi squadernano con estrema facilità sotto i nostri occhi una sintesi fra tradizione e novità dell’esperienza umana che di continuo accade. Apprendiamo così, quasi senza accorgercene, che ogni espressione d’arte, ogni suo emergenza è costituita da conoscenze tecniche specifiche, da un sapere collettivo, investito da una capacità di sintesi che lo trascende, lo configura in composizione armonica, racconto poetico, figurazione, luogo, e altro ancora, che restituiscono in immagine, in una imago che promette compimento in un anticipo commovente, chi noi siamo come uomini.

L’arte non è imago di un destino, lo è di un esserci oggi nel mondo così come è, di una presenza di noi a noi stessi dentro questo mondo che ci stimola a interrogarci sul nostro destino. Per questa ragione e in un certo senso inevitabilmente l’arte non può scomparire. Per questa stessa ragione essa tende a farsi luce in ogni tempo assumendo materiali e situazioni contingenti. A questo essa serve: a dire che ci siamo e che siamo inevitabilmente, non occasionalmente né tanti meno elitariamente, aperti alle domande più semplici e più profonde: chi è l’uomo? chi sono io? di cosa si alimenta il mio vivere? Dove devo volgere il mio sguardo perché la mia vita sia carica di senso e davvero mia?

Poiché, però, l’arte non descrive ma provoca vale a dire manifesta qualcosa che accade, poiché essa è eminentemente dell’ordine dell’agire, del fare, non esiste accademia, contesto privilegiato di cultura, area di saperi che possa imprigionarla a priori nel proprio perimetro. Accade dove accade, e va riconosciuta come tale dove essa ha potuto emergere. Musei, accademie, scuole sono utili come premesse, come terreno di coltura. Sono anzi molto importanti e non solo in questo senso. Dell’arte questi luoghi possono tenere viva la necessità e il rispetto, la storia e la fecondità formativa delle giovani generazioni. Ma la genesi dell’opera d’arte è inscritta in modo esclusivo in un talento umano sorgivo che affonda le sue radici nella condizione umana che tutti viviamo, quella di un fragile, temporaneo e misterioso cammino individuale sul pianeta Terra e in un meraviglioso cosmo che sopravanza ogni nostra possibilità di misura.

Una immagine d’arte che dice, meglio e con più forza, quanto ho tentato di esprimere a fare dell’arte di oggi? Un girasole di Van Gogh, che cerca il sole mentre è scosso dal vento della vita che lo circonda.

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