Caro Padre Abate, costruiamo ponti tra persone, non tra riti


Notre-Dame-Fontgombault-francia

La stanchezza per la “battaglia liturgica” trapela con chiarezza dalle parole dell’Abate Pateau OSB, di Fontgombault. Ed è assai curioso trovare, nello stesso testo, la più evidente sollecitudine per la pace e per la riconciliazione ecclesiale, mescolata in profondità con i pregiudizi più radicati, che invece alimentano il sospetto, la diffidenza e il conflitto. Poiché il padre Abate ha avuto la avventura di citarmi nel suo testo, in modo non proprio lusinghiero, anche se con rispetto, ho pensato che fosse giusto rispondergli, di tutto cuore, in nome di quella “comunità benedettina” dalla quale discendono tanto le sue preoccupazioni di pacificazione, quanto i miei rilievi di metodo e di stile sul progetto di riconciliazione. Lo faccio in forma epistolare, inviandogli una “lettera di pace”, in cui tento di parlargli di ciò che mi convince e di ciò che non mi persuade del suo testo.

“Caro Padre Abate,

nella intervista pubblicata da “Famille Chrétienne” il 19/7,  ripresa l’altro ieri dal blog Messainlatino in traduzione italiana, ho trovato anzitutto uno spirito benedettino di riconciliazione e di pace. Questo mi trova pienamente d’acc0rdo con lei. L’anno scorso, con un gruppo di teologi europei e americani, abbiamo scritto un ebook sul tema della “riconciliazione liturgica”, cosa che anche lei ritiene assolutamente decisivo. Le sue parole sono anche molto chiare nell’indicare il compito di “non rigettare” il testo del nuovo MP di papa Francesco, che abroga “Summorum Pontificum”. Lei è stato coraggioso nel pronunciare questa parola forte, forte anzitutto per i suoi ambienti, e in questo trovo un segno della grande tradizione benedettina che caratterizza non solo la sua Abbazia, ma anche le Abbazie nelle quali ho imparato a conoscere e a riconoscere la forza della liturgia: S. Giustina a Padova, S. Anselmo a Roma, Camaldoli nel Casentino, Dominus tecum a Pra d Mil, insieme alle tante abbazie femminili (Grandate, Fabriano, Tarquinia…).

Siamo d’accordo su due esigenze del tutto centrali: costruire ponti è ormai diventato un imperativo e far cessare le battaglie liturgiche si rivela una priorità inaggirabile, per tutti. Lei cerca di trovare i toni più adeguati per dare del nuovo testo una visione non lacerante, non intollerante, non frontale. Questo è un intento nobile e che le fa onore.

Nello stesso tempo, tuttavia, il suo testo sembra restare del tutto sordo al contenuto del MP “Traditiones Custodes” (=TC), e questo mi sorprende alquanto. Fin dal titolo, che forse lei non ha determinato, ma che comunque appare fedele ai contenuti delle sua parole, viene posta male la relazione tra il testo di Francesco e la costruzione dei ponti: ciò che Francesco chiede, con TC, è di costruire ponti “tra le persone” nell’unico rito comune e ordinario, non “ponti tra due forme del rito romano”. Questo equivoco iniziale, che trova tante conferme lungo tutta la sua articolata intervista, manifesta una sorta di “punto cieco” che cerco di chiarire, in una serie di brevi osservazioni, che le sottopongo volentieri:

a) In linea generale, la sua opzione di “non rigettare il testo di Francesco”, se osservata con attenzione, appare piuttosto singolare. Per il fatto che, nel valutare il testo di TC, lei continuamente lo riempie dei contenuti di SP. Ma TC ha abrogato SP e la logica con cui SP pretendeva di fare pace. Se la intenzione è quella di “fare pace”, occorre dare alle parole il loro vero significato. Lei continua, nel suo discorso, a riferirsi a “due forme dello stesso rito”, alle quali i battezzati “avrebbero diritto”. Ma questa è la visione che SP ha tentato di introdurre in modo non lineare e mediante principi di cui la tradizione non ha mai saputo nulla. Il gioco di parole sul “messale tridentino” – che lei non è il primo a ripetere e che ha avuto il suo inizio in affermazioni del Card. Giuseppe Siri nel 1951 e di M. Lefebvre dopo il Concilio Vaticano II – secondo cui non avrebbe eliminato “altre forme” del rito romano, è una elucubrazione senza fondamento: lei dovrebbe sapere bene che le “altre forme”, con cui Trento si confronta, avevano determinazioni o geografiche o personali del tutto particolari. Né il rito ambrosiano né il rito domenicano sono “riti universali”, ma sono ordines condizionati da dimensioni geografiche o personali che ne delimitano strutturalmente l’impatto. Trento non ha mai neppure lontanamente concepito “due forme” del medesimo rito vigenti nella stessa unità di spazio, di tempo e di persone. Solo SP ha provato ad ipotizzare una contemporanea vigenza di due forme diverse e conflittuali della stesso rito romano. Questo “trucco” – perché di trucco sistematico si tratta – ha portato “battaglia”, non “pace”. Per questo TC ha abrogato SP: perché non è possibile costruire “ponti” tra forme diverse del rito romano, ma solo ponti tra persone diverse che usano tutte la stessa forma comune di rito romano.

b) Sempre all’inizio, e poi molte volte nelle molto sue risposte, lei sottolinea la “durezza” e la “severità” di TC, che si riassume nella percezione che lei così esprime: “Il testo del Papa suggerisce che si deve fare di tutto perché la modalità di celebrazione nella Forma Straordinaria scompaia al più presto. Questo preoccupa giustamente i fedeli attaccati a questo modulo“. In un certo senso lei sembra valutare questa storia da un angolo privilegiato. Alcuni monasteri benedettini, tra cui il suo, avevano in qualche modo anticipato, in una forma particolare e non senza elementi di rigidità e di ostinazione, la soluzione che nel 2007 si è pensato di trasformare in “legge generale”. Dura e severa è stata la accelerazione voluta nel 2007, che ha creato illusioni, distorsioni di prospettive, miraggi ed incubi. La invenzione – che sconfina nella mistificazione – di una “forma straordinaria” che si affiancava 50 anni dopo alla forma ordinaria elaborata su indicazione del Concilio e la rende “opzionale” è una mossa troppo dura e troppo severa. Di fronte a questa “dura accelerazione della nostalgia”,  TC appare invece come un atto di moderazione e di ripresa organica della vera storia comune. Non è una “pretesa assurda di Francesco” che il VO scompaia: è tutta la tradizione a sapere da sempre – almeno fino alla amnesia istituzionale del 2007 – che una riforma generale del rito romano sostituisce il nuovo rito al rito precedente. E il rito romano si trova nel risultato della riforma. Come è sempre stato, nei secoli dei secoli.

c) Lei ritiene che alcuni liturgisti “disprezzino” la forma straordinaria del rito romano e che l’unica via per la pace sarebbe il mutuo riconoscimento tra le due “forme”: coloro che celebrano il NO dovrebbero riconoscere il VO e quelli che celebrano il VO dovrebbero riconoscere il NO. Anche qui, tuttavia, le cose non possono funzionare così né sul piano teologico, né sul piano spirituale, né sul piano pastorale. Circa i liturgisti posso parlare solo di me e non mi permetto di esprimermi in nome di terzi. Ma per quanto mi riguarda io non nutro alcun disprezzo per il VO: semplicemente non lo conosco e non posso conoscerlo: è il Concilio Vaticano II a volere così. Perché è la forma del rito romano che il Concilio ha voluto riformare e che mi è giunta nell’unica forma che ho sempre celebrato: quella successiva al 1969. Trovo curioso che io, che sono nato nel 1961, possa dire con piena coscienza questa cosa, mentre lei, che è nato ben 5 anni dopo di me, possa celebrare ordinariamente con la forma straordinaria. Certo, so bene che qui parla la sua identità francese, la sua origine nella Vandea, la storia della Chiesa di Francia, che ha recepito la riforma liturgica in modo molto più lento e meno capillare di quanto non sia avvenuto in Italia. In Italia, con tutte i suoi limiti, abbiamo davvero recepito e applicato la riforma. L’accesso al rito romano è avvenuto nella forma nuova che è divenuta presto ordinaria e unica, come è sempre accaduto nella storia della Chiesa. E’ la mia esperienza, fin dall’origine, a parlarmi del rito romano nell’unica forma vigente, da quando ho età di ragione. Non per disprezzo personale, ma per estraneità tradizionale.

d) Lei parla, nello stesso tempo, di “non respingere il testo di Francesco” e di “attaccamento alla forma straordinaria”. La prima è una “norma”, il secondo un “affetto”. Qui credo che vi sia il lato più delicato della questione, che non si può risolvere né con “decreti dal vertice” né come “populismi dal basso”.  Con TC è cambiato il modo di considerare la questione. Non esiste più una “forma straordinaria” del rito romano (cosa che è stata inventata nel 2007 da SP e che non ha alcun riscontro nel passato ecclesiale) , ma un’unica forma del rito (quella cosiddetta “ordinaria”) e alcune concessioni all’ uso del rito “non vigente”, destinate con il tempo a ridursi al nulla. Questa è la fisiologia ecclesiale, non la patologia di Francesco. Così la sfida per fare pace passa dai “ponti tra due forme rituali” ai ponti “tra fedeli che usano l’unica forma comune”. Molte delle cose che lei indica come “irrinunciabili” del VO devono essere scoperte, introdotte o riconosciute nell’Ordo voluto dal Concilio Vaticano II. E non sarebbe un piccolo segno di pace se una Abbazia benedettina come la sua, che ha alimentato non poco la ostilità al Vaticano II, si desse gradualmente alla scoperta dei tesori liturgici del NO e li mettesse in comune, nella esperienza monastica e nella esperienza ecclesiale. E aiutasse la Chiesa intera a vivere la continuità della sostanza del depositum fidei nella nuova formulazione del suo rivestimento.

e) Le parole dei giovani che dicono “la riforma non è completa” sono importanti e del tutto vere. La riforma è appena iniziata. Questo però non giustifica una risposta deludente: o perché li illude di poter stare al di qua della riforma, in un rito artificiale che non ha più fondamento; o perché li delude in una mancanza di stile e nella sciatteria di una routine senza cura e senza viva esperienza. Il lavoro comune, transgenerazionale, sull’unico rito comune è l’orizzonte che papa Francesco ha voluto autorevolmente rimettere al centro della attenzione. Contro la distrazione introdotta nella chiesa dalla teoria della “doppia forma”, che ha illuso e amareggiato tutti. Sul piano strettamente teologico vi è stata, in questi 14 anni, una sorta di “follia collettiva” dalla quale Francesco ci ha risvegliati, con parole di grande chiarezza, in vista di una vera riconciliazione. A questo lavoro di riconciliazione non può contribuire la invenzione di una “concorrenza” tra due forme rituali, di cui la seconda è nata per correggere ed emendare la prima.

Caro P. Abate, lei dice bene: “E’ tempo di costruire ponti”, rimuovendo le letture ideologiche. Anzitutto quelle che creano artificialmente un regime di “concorrenza sleale” tra forme rituali che non sono nate per questo scopo e che non possono convivere se non eccezionalmente, solo per indulto. Capisco il travaglio di chi si era illuso di poter vivere “universalmente” con questa imbarazzante contraddizione. Ma per consolare i delusi e gli illusi bisogna usare le parole di TC, non quelle di SP: altrimenti la ferita non sarà curata e i ponti saranno solo la denominazione opportunistica con cui continueremo a chiamare e a costruire nuovi muri invalicabili”

 

 

 

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