Due grembi per una stessa madre? Sulle forme del rito romano (di Andrea Ponso)


cerfeustache

Il dibattito sullo “stato di eccezione liturgica” si arricchisce oggi di una lettura di straordinaria originalità e profondità, che viene proposta da Andrea Ponso, che è filosofo, poeta, traduttore (sua è una fortunata versione del Cantico dei Cantici   e di Qohelet) e anche teologo della liturgia non improvvisato. Il suo contributo legge in modo problematico la rinuncia alla forza “generativa” e “performativa” del rito, quando lo si assuma come un oggetto di elezione da parte del soggetto. Una teoria della “duplice forma alternativa” del rito romano smarrisce proprio ciò che della tradizione è più prezioso: ossia il suo porsi come “grembo di vita”, capace di novità. E’ difficile leggere un testo più chiaro nel dimostrare come sia proprio un tradizionalismo soggettivista il peggior nemico della tradizione. Aggiungo anche che questo ulteriore tassello alla riflessione sulla “teologia del rito romano” viene, ancora una volta, da un “non-chierico”. Negli ultimi giorni sono intervenuti, oltre a chi scrive, Pierluigi Consorti, Umberto del Giudice e ora Andrea Ponso: di fronte alle gravi questioni del rito romano sembra che i chierici sappiano solo tacere.

Due grembi per una stessa madre? Alcune riflessioni sul dibattito intorno a Summorum Pontificum

di Andrea Ponso

La cosa che più mi colpisce nel dibattito sulle due forme parallele del rito, “ordinario” e “straordinario”, inaugurate dal motu proprio Summorum Pontificum, è qualcosa che riguarda più lo stile che non i suoi, pur discutibili e criticabili, contenuti. Del resto, stiamo parlando di liturgia e, nella liturgia, come sappiamo bene, almeno in teoria, ciò che viene preservato è un insieme di azioni e di parole, di gesti e di pratiche, che non possono mai ridursi alla rappresentazione di un insieme preconfezionato di significati e di concetti, siano pure quelli della più alta dottrina ecclesiale e teologica: è infatti esattamente il contrario, poiché il rito e la liturgia sono la “macchina celibe” capace di originare, ogni volta di nuovo, nel rischio e nella speranza di fede, il cuore pulsante, il grembo stesso in cui il cristiano può fare esperienza del dono di una presenza – una presenza che è inscindibile dalla forma che la genera e che, tuttavia, proprio come il grembo materno, accoglie e lascia essere, trascende continuamente se stessa non contro ma nella sua funzione, che è quella di lasciare nascere.

Allora, parlare di due forme rituali sarebbe come parlare di due “madri” che possono essere scelte a piacimento, proprio come accade nelle pratiche mediche del “grembo in affitto”. Nell’uno come nell’altro caso, paradossalmente, siamo di fronte, proprio attraverso la carne, ad un tipo di astrazione che mette nelle mani del soggetto una possibilità di decisione estremamente problematica, pericolosamente soggettivistica per non dire egoistica. Se tale ardita metafora può sembrare troppo forte, si può sostituire, con risultati molto simili, con quella estetica di forma e contenuto.

Si potrebbe facilmente riassumere l’intera questione di forma e contenuto per l’opera d’arte con la seguente frase: “trovare un significante laddove ci si aspetterebbe un significato“. Solo in questo modo, mi pare di poter dire, l’opera d’arte è davvero vivente; solo in questo modo possiamo partecipare attivamente e immersivamente alla sua genealogia in atto, alla sua semiogenesi e, quindi, cosa non meno importante, alla sua tradizione. Perché ciò che spesso viene inteso erroneamente è proprio l’idea di tradizione che, per sua natura, appunto, non è una idea ma una pratica, un fare, un poiein. In questo senso la tradizione è l’insieme che preserva la tonicità dei significanti e delle forme, la loro elasticità, la loro capacità di accogliere e di trasformare – proprio come accade in un grembo materno che, non dimentichiamolo, è uno dei possibili significati biblici in lingua ebraica di quella che chiamiamo misericordia. È solo nel continuum unificante della forma, fino alle sue più piccole articolazioni significanti, che la storia dell’opera può rivelarsi nelle sue continuità e nei suoi salti di paradigma: è solo in questo continuum che la storia si dà a noi come unificazione comunitaria capace di generare mistagogicamente – e non come progetto monolitico, babelico e idolatrico in cui la dottrina, come è ormai sotto agli occhi di tutti, de-genera e non riesce più a far nascere nuovi cristiani e un canto nuovo. La liturgia cristiana, cattolica in particolare, sembra essere a questo bivio problematico.

Nella stessa direzione, la pratica esegetica ebraica del testo sacro avrebbe molto da insegnarci, proprio per la sua attenzione al minimo che diventa massimo, anche in una singola lettere, in una radice consonantica, in uno spazio vuoto del testo … Meschonnic ha scritto un saggio intitolato Un colpo di Bibbia alla filosofia che, già nel titolo, ci dice molto a riguardo e che consiglio a tutti. Credo di poter dire che, se la lettura del testo ebraico si è ritualizzata, la nostra liturgia si è troppo testualizzata, e nel senso deteriore del termine, come rappresentazione di ciò che già sappiamo dalla tradizione – cosa ben diversa, e anzi del tutto opposta, ad una corretta vita nella tradizione. In questo modo, la stessa autorità ecclesiale e dottrinale abdica ad una delle sue caratteristiche più importanti, che non è quella del preservare forme e contenuti come fossero due cose diverse, ma quella di prendersi la responsabilità di innovare nella tradizione: cosa che può essere fatta solo immersivamente, dall’interno di quel grembo pulsante e portatore di vita che si fa storia in divenire abbracciando la comunità e facendosi esso stesso comunità: un essere-in-comune piuttosto che un essere-comune.

La concessione delle due forme rituali sembra invece abdicare a tutto questo. Non solo, quindi, alla forza viva e non dualistica della forma unica del rito, proponendo due forme intercambiabili soggettivamente; ma anche alla responsabilità dell’autorità come possibilità di innovazione nei confronti della tradizione. Sembra un paradosso ma non lo è: il “potere” dell’autorità rinuncia alla sua vera funzione per salvaguardare se stesso; esso ristabilisce la possibilità di una tradizione antica e, di fatto, nega la tradizione stessa. E il cristiano si trova privato di quel grembo mistagogico tanto essenziale proprio in quanto organo significante che, tramite il suo vuoto generante, creato appunto dalla tradizione, si fa spazio liturgico-rituale accogliente. Se la tradizione non è capace di intessere le pareti di carne viva di questo grembo, se non è capace di questa etimologia della misericordia, finisce per uccidere i suoi figli proprio nel momento in cui sembra lavorare per dare loro una illusoria possibilità di scelta tra due forme liturgiche.

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