Il paradosso del clericalismo. La patologia ecclesiale e le forme storiche della “uscita”.
A Sestri Levante, nell’ambito della Scuola di formazione teologica, ho tenuto una conferenza la sera del 4 aprile all’interno del corso intitolato: Clericalismo, malattia della Chiesa. Dagli appunti di quella serata ho tratto questo breve testo di riflessione. Ringrazio gli organizzatori per l’invito e per la sollecitazione a riflettere più a fondo sul tema. (ag)
Il paradosso del clericalismo. La patologia ecclesiale e le forme storiche della “uscita”.
“…questo nome di clericale è sinonimo di perfetto cattolico, secondo la religione, e di perfetto galantuomo, secondo la civiltà” (“La Civiltà cattolica”, 1875, I clericali secondo i liberali, 5-20, qui 20)
“Il clericalismo dimentica che la visibilità e la sacramentalità della Chiesa appartengono a tutto il popolo di Dio (cfr. Lumen gentium, nn. 9-14), e non solo a pochi eletti e illuminati” (Francesco, Lettera al Card. Ouellet, Presidente della Pontificia Commissione per l’America Latina, 2016).
Che cosa è in gioco nel clericalismo? Direi che la questione oggi più evidente è quella di una chiesa “chiusa in sé” e incapace di “uscita”. Uscita da dove e verso dove? Si tratta per la Chiesa di uscire da sé, o, meglio, di far uscire Cristo da sé, perché possa raggiungere il mondo. Al centro vi è dunque una “sapienza di uscita” che la tradizione ha gestito in modi differenziati e che oggi ci chiede una forma del tutto nuova nel modo di riflettere e di agire. Perché la “differenza di Dio” non si dà più nella differenza di ordini sociali e di soggezioni personali. Questa questione culturale e sociale è centrale nel nostro problema. Forse esso consiste proprio nel fatto di non saper più distinguere queste varianti (culturali, sociali, antropologiche) tra due modi diversi di annunciare “la differenza di Dio”. In una paginetta che il futuro papa Francesco ha usato per il suo discorso poco prima di essere eletto, dice che la Chiesa deve ascoltare il “bussare del Signore”, che sta alla porta, ma bussa per uscire, non per entrare: vuole uscire nel mondo! Il clericalismo, potremmo dire, scaturisce dalla “cattura di Dio” nelle chiusure ecclesiali. Si fa coincidere la differenza di Dio con le differenziazioni sociali, burocratiche, formali che la Chiesa ha legittimamente elaborato lungo i secoli, ma che devono essere lette con lucidità, per saper discernere “ciò che non muore e ciò che può morire” (Dante). Certo, la differenza di Dio non si annuncia nella “indifferenza”. Non tutto è uguale! Il Dio che è “amore all’eccesso” dice una trasgressione e una differenza. Diremmo perciò che la differenza di Dio esige una nuova “non indifferenza”. Ed è qui il punto delicato e dolente. Come facciamo ad essere “non indifferenti” senza essere semplicemente antiquati? Vorrei percorrere una breve traiettoria in cerca di una definizione di questo paradosso. Per farlo, dopo una premessa storica sul sorgere del termine “clericalismo” (§.1), tento un primo chiarimento del termine prima nella storia recente e poi nella storia antica (§.2) arrivando infine alla radice “sacramentale” del clericalismo (§.3) per poi concludere (§.4).
1. La parola del “nemico” e la difesa della identità clericale
Come si annuncia la differenza di Dio, fino al XVIII secolo? Con la subordinazione a Dio dell’ordine sociale, pensato nella sua differenza insuperabile tra “ordini”, tra “stati”, tra “classi”, tra “gerarchie”. Nel mondo tradizionale, la struttura sociale è immagine di Dio. Si fonda sulla autorità (non sulla libertà) e sulla differenza (non sulla eguaglianza): in questo mondo la fraternità è decisiva per riequilibrare le differenze imposta dalla subordinazione e dalla disuguaglianza. Per questo l’attentato “liberale” e “repubblicano” alla struttura gerarchica e monarchica del mondo è stato percepito (non solo dalla chiesa, ma da tutto il mondo tradizionale) come peccato originale della modernità. Nel Du pape di De Maistre questo è chiarissimo. Perciò il termine “clericalismo”, che sorge dopo la metà del XIX secolo, viene coniato dal “nemico” massone e liberale come accusa contro la nostalgia per una concezione della autorità affidata al clero. La parola nasce, perciò, come definizione del cattolicesimo in termini di “resistenza ad oltranza nella difesa del potere temporale”. D’altra parte la parola, nata e percepita come un insulto, viene recuperata in positivo, come qualità inevitabile del buon cattolico e del buon galantuomo (cfr. esergo de La Civiltà Cattolica del 1875). Lo sviluppo del tema subisce, in 150 anni, una grande trasformazione, come attesta D. Menozzi, ( Il papato di Francesco in prospettiva storica, 179-191), arrivando ad una svolta, preparata da Paolo VI e da Giovanni Paolo II. Singolare è il fatto che nei 7 anni di pontificato di Benedetto XVI il termine ricorra nei discorsi ufficiali solo una volta, mentre nei primi 7 anni del pontificato di Francesco (fino al 2020) il termine appare già ben 55 volte! Il clericalismo passa così da “difesa dei diritti della autorità ecclesiastica” a “malattia ecclesiale”, da prerogativa della Chiesa verso il mondo a perversione interna alla identità sociale cattolica.
Si deve dire, tuttavia, che “clericalismo”, anche nella sua accezione peggiore, dice una “apertura al mondo”: un mondo da dominare, da giudicare, da separare, da reggere, ma un mondo significativo e persino decisivo. Non vi è nulla di “autoreferenziale” nel clericalismo della tradizione: questo è il paradosso. Il clericalismo diventa “autoreferenziale” quando diventa difesa dal mondo, chiusura al mondo, separazione dal mondo. Vediamo meglio questa dinamica paradossale.
2. Il clericalismo “in uscita”
Iniziamo a chiarire l’orizzonte. La “differenza” decisiva è quella tra Dio e uomo. Una differenza che trova sintesi nel Figlio di Dio, vero uomo e vero Dio. La radice seria del clericalismo sta in questa differenza, che viene affermata e difesa attraverso la identificazione con una struttura di ordinamento sociale e culturale. L’”ordo”, ciò che oggi chiamiamo ministero ordinato, è proprio questa forma classica di pensiero della differenza di Dio, che diventa principio di organizzazione sociale della chiesa. La differenza di Dio crea la differenza sociale: alcuni (pochi) sono i custodi di questa differenza per tutti gli altri. Perciò la differenza sociale custodisce la differenza di Dio.
Questa differenza è storicamente mediata dai “sacerdoti” (ma anche dai re e dai profeti), che garantiscono la differenza e in qualche modo la gestiscono. L’affermarsi di questa soluzione appare chiaramente nella storia della Chiesa cristiana e cattolica in particolare (ma non solo in essa).
La tendenza anche della Chiesa, soprattutto a partire dal IV e V secolo, è stata quella di elaborare lentamente una “teoria del clero”, dei “chierici”, come soggetti “differenti”, separati, che custodiscono la differenza di Dio. Il de ecclesiasticis officiis è stato il manuale di questa formazione alla differenza testimoniale. Tale custodia avveniva su due livelli: quello “sacramentale” (al cui vertice era il prete-sacerdote) e quello “giurisdizionale” (al cui vertice era il vescovo). I due piani sono stati per circa un millennio così separati che potevano essere scissi. Si poteva essere vescovi senza essere preti! Oggi abbiamo dimenticato tutto questo, ma se si legge l’antico Ceraemoniale Episcoporum, si capisce bene di che cosa si tratta!
Ma la chiesa cristiana ha, nei suoi testi istitutivi, una diversa visione sia del sacerdozio sia del ministero. Vi è un solo sacerdote, che è allo stesso tempo, sacerdote, altare, vittima e Dio, oltre che re e profeta! E i ministeri prendono nomi “laici”, come episcopo, presbitero e diacono, senza assumere come tali determinazioni sacerdotali. La riscoperta di queste originarie verità, che segna la cultura del protestantesimo e poi la cultura comune di tutto il cristianesimo degli ultimi due secoli, mette in crisi la ricostruzione classica e la lettura dell’ordine sociale come “garanzia” di Dio.
La organizzazione della Chiesa in “due ordini” (clero e laici) non è un elemento originario della fede cristiana. Si è però sviluppata nell’alto medioevo ed è arrivata fino al XX secolo
Dopo una ricostruzione nuova della Chiesa, voluta dal Vaticano II, secondo la tripartizione tra profezia, regalità e sacerdozio (le tre differenze a custodia di Dio) riproporre il clero come separatezza strutturale diventa obiettivamente “clericalismo”: potremmo dire che è la riproposizione della “differenza di Dio” nella forma storica di una “differenza di onore”. La storia della Chiesa e la storia della cultura si intrecciano in modo tanto profondo e quasi indissolubile.
Qui si può ricorrere ad una bella distinzione di Ch. Taylor ( nel suo Il disagio della modernità), ossia quella tra “società dell’onore” e “società della dignità”. La prima si basa sulla “differenza”, mentre la seconda sulla “eguaglianza”. Il soggetto è riconosciuto nella prima come “differente”, nella seconda come “uguale”. La questione che si pone alla Chiesa, da 200 anni suona: come annunciare il Vangelo in un mondo in cui la struttura sociale si fonda non su una “differenza”, ma sua una “eguaglianza”? Significa provare a separare la “chiesa” dalla “societas inaequalis”, difesa ancora da Pio X nel 1906 con queste parole:
“Ne risulta che la Chiesa è per sua natura una società ineguale, cioè una società formata da due categorie di persone: i Pastori e il Gregge, coloro che occupano un grado fra quelli della gerarchia, e la folla dei fedeli. E queste categorie sono così nettamente distinte fra loro, che solo nel corpo pastorale risiedono il diritto e l’autorità necessari per promuovere e indirizzare tutti i membri verso le finalità sociali; e che la moltitudine non ha altro dovere che lasciarsi guidare e di seguire, come un docile gregge, i suoi Pastori.” (Pio X, Vehementer nos)
3. Le radici culturali e sacramentali del clericalismo
Tra le forme di sottovalutazione del clericalismo vi sono le considerazioni insufficienti della sua realtà: quasi come se fossero occasionali esagerazioni di una struttura sostanzialmente giustificata e sana. Da quello che ho detto si può desumere, invece, che il clericalismo si annida in concezioni fondamentali (e distorte) della natura della Chiesa. Vediamo le principali forme in cui si incarna la “resistenza” del modello di pensiero che scivola, direi inevitabilmente, nel clericalismo:
a) la costituzione “separata” della cultura ecclesiale
La prima radice del clericalismo è la pretesa (recentissima) con cui la Chiesa interpreta se stessa come “sistema culturale parallelo”. Vi è una buona intenzione: quella di garantire la “differenza di Dio” nel mondo tardo moderno, di difendere la differenza della Parola dalle parole degli uomini. Ma la strada è “clericale” perché pretende di poter identificare la differenza (che resta necessaria e vitale) senza passare attraverso la cultura comune. Esaurendosi in una cultura “intra muros”, la cultura dell’antimodernismo è clericale per vocazione e per destino. E così perde la possibilità di uscire, anzi si afferma proprio nel non dover uscire affatto.
b) la comprensione della eucaristia come “azione riservata al clero”
La seconda radice, molto più antica, è la cultura clericale (in senso stretto) che riguarda il sacramento della eucaristia. Ossia la teoria secondo cui a “dire messa” è il vescovo o il prete, di fronte ad una assemblea di muti spettatori. Nello sviluppo sacramentale, a partire dall’alto medioevo, di questa separazione “del corpo di Cristo” vi è la seconda radice del clericalismo. A cui si rimedia solo con una diversa teologia del sacramento dell’eucaristia, che faccia della “actuosa participatio” non solo un nuovo orpello cerimoniale, ma un elemento sostanziale della teologia del sacramento.
c) la comprensione del clero come “corpo separato” della chiesa
La terza radice, che alimenta tanto la seconda quanto la prima, è la differenza dell’”ordo”. Che il ministero ecclesiale assuma una forma sociale di “ordo” costituisce la forma ontologica di una differenza di autorità pensata secondo le logiche di una società senza libertà e senza uguaglianza. Questo non significa che la chiesa non possa e non debba avere un ministero sacramentale, ma che le forme da esso assunte hanno assorbito forme culturali e sociali che non riescono a mediare né la libertà né la eguaglianza. Le resistenze con cui si ostacola ogni accesso della donna al ministero ordinato fanno parte di questa idea di homo hierarchicus con cui per secoli si è scambiata una forma culturale con il Vangelo.
Come si può “uscire” da queste tre radici del clericalismo?
a) il rapporto chiesa-mondo deve essere inteso senza opposizione frontale: elaborare diverse strategie di annuncio della differenza di Dio in Cristo deve tener conto della relazione per cui la Chiesa è salvezza per il mondo, ma il mondo è buona salute per la Chiesa.
b) la eucaristia non è anzitutto azione del sacerdote, ma azione di Cristo e della Chiesa: la “partecipazione attiva” ha qui la sua radice e il suo terreno di elaborazione, che non nega la presidenza, ma non le permette di requisire l’esperienza del sacramento.
c) Una rilettura del ministero ordinato deve avvenire in continuità con i tre doni del battesimo: munus docendi, munus regendi e munus sanctificandi sono qualità di ogni battezzato, oltre che nuovi criteri trasversali di comprensione di ciascuno dei tre gradi del ministero ordinato.
La prospettiva che fa uscire dal “clericalismo” è quella che può riflettere in modo nuovo su chi siano i soggetti dotati di autorità nella Chiesa. Come si deve comporre la “differenza della autorità” con la “eguaglianza nella libertà”? La società dell’onore aveva risposte chiare, ma culturalmente e socialmente superate. La società della dignità è attuale, ma ha risposte ancora faticose, poco elaborate, troppo nette e senza procedure affermate. Su questo oggi occorre lavorare. Sappiamo cosa non dobbiamo più fare. Ma non sappiamo bene che cosa dobbiamo sostituire a ciò che è superato. Qui sta il nostro comprensibile imbarazzo, sul quale dobbiamo agire e pensare, proporre nuovi modelli, lasciandoci ispirare, come dice GS 46, “alla luce del Vangelo e della esperienza umana”.
4. Conclusioni
Come fa la Chiesa a “uscire da sé”? Con il termine clericalismo si era identificato, 150 anni fa, un antico “metodo di uscita”, allora contestato, ma prima affermato e pacificamente presupposto: esso consisteva nel conservare, a tutti i costi, una autorità diretta, giuridica e amministrativa, sul mondo secolare, che la Chiesa così pensava di continuare ad orientare e a governare. Ancora nelle visite pastorali successive al Concilio di Trento i vescovi facevano gli assistenti sociali, gli amministratori, i giudici, i consulenti finanziari e i commissari di polizia. Questa opzione, che nasceva come una necessaria “apertura al mondo”, e che aveva caratterizzato i secoli a partire dal mondo tardo antico e dal primo medioevo, con il tempo si era trasformata in una chiusura ermetica verso il mondo, che produceva una pericolosa deriva autoreferenziale. Per questo è tanto difficile uscire dal clericalismo: perché per secoli è stato il modo per eccellenza della “chiesa in uscita”. Per abitare il mondo la Chiesa deve oggi pensarlo (e pensarsi) come “societas aequalis”. Dio parla anche nella società della eguaglianza: non nella differenza di status o nella indifferenza del relativismo, ma nella “non indifferenza” della misericordia. Ecco la sfida riformulata profeticamente prima dal Concilio Vaticano II e oggi dal magistero di Francesco. Essa chiede alla teologia di elaborare categorie ecclesiali nuove, anche e forse anzitutto in ambito sacramentale e ministeriale, dove le logiche feudali dell’ordo e del cerimoniale confondono ancora in modo troppo rozzo l’ancien régime con la fede cristiana, la differenza sociale con la trascendenza di Dio e la rappresentazione formale di un solo “sacerdote” con l’azione rituale dell’intero popolo di Dio, inteso come comunità sacerdotale.