Padre Graulich sullo “stato di eccezione liturgica”: le sue obiezioni e le mie risposte


1962-missale-romanum

Mons. Markus Graulich, Sottosegretario del Pontificio Consiglio per i Testi Legislativi, ha scritto una serie di obiezioni, piuttosto sgarbate e sbrigative, contro la Lettera sullo stato di eccezione liturgica. Si tratta di un testo eminentemente giuridico, che tuttavia mostra di non coglierne né il significato né la portata della Lettera Aperta e delle questioni che la giustificano. Provvedo a pubblicare il testo francese (tratto da https://www.riposte-catholique.fr/archives/155420 ) cui faccio seguire le mie risposte, in forma epistolare.

Il testo (francese) di Mons. Markus Graulich

La Lettre ouverte, dans laquelle des spécialistes de la Liturgie demandent le retrait des deux décrets publiés par la Congrégation pour la Doctrine de la Foi le 25 mars et le « retour » à la Congrégation pour le Culte Divin de tous les pouvoirs accordés à la Congrégation pour la Doctrine de la Foi en matière de liturgie, fait partie d’une série de polémiques, dont certaines n’ont pas été réglées chez les signataires de cette Lettre ouverte depuis la publication du Motu proprio Summorum Pontificum.

La Lettre ouverte contient diverses idées fausses (pour ne pas parler d’erreurs), qui suggèrent un manque de connaissance ou une connaissance idéologiquement déformée du sujet de la part des auteurs.

Le troisième paragraphe parle de « deux rites différents » : « le rite conciliaire et celui qui le nie ». Cette juxtaposition est en soi fausse et montre une ignorance de l’intention du pape Benoît XVI lorsqu’il a publié le Motu Proprio Summorum Pontificum : il n’a pas permis deux rites parallèles, mais deux expressions du même rite. À cet égard, il déclare à l’article 1 du Summorum Pontificum : « Ces deux expressions de la lex orandi de l’Église n’induisent aucune division de la lex credendi de l’Église ; ce sont en effet deux mises en œuvre de l’unique rite romain »

Dans les deux premiers tirets de la lettre, la Congrégation pour la Doctrine de la Foi se voit refuser la compétence pour émettre les deux décrets et est accusée de manquer de « compétences historiques, textuelles, philologiques et pastorales ». Cette accusation ignore deux choses : « La réglementation de la Sainte Liturgie… est de la compétence du Saint-Siège » (can. 838 §1 CIC), c’est-à-dire en règle générale de la Congrégation pour le Culte Divin. Cependant, le Pape est libre de confier cette matière à d’autres Dicastères du Saint-Siège. Par le Motu Proprio Summorum Pontificum (art. 12), le Pape Benoît XVI a confié la compétence de la forme extraordinaire du rite romain à la Commission Ecclesia Dei (aujourd’hui une section de la Congrégation pour la Doctrine de la Foi), qui est incluse dans la Congrégation pour la Doctrine de la Foi. Les compétences spécifiques ont été définies plus en détail dans une Instruction du 30 avril 2011, qui a été approuvée par le Pape. Formellement et juridiquement, la Congrégation pour la Doctrine de la Foi a donc agi dans le cadre de ses compétences et a rempli le mandat qui lui a été confié. Sur le plan du contenu, la Congrégation pour la Doctrine de la Foi est également compétente, soit par ses collaborateurs, soit par ses consultants, qui traitent de tous les sujets de nature théologique.

Le reproche suivant de la lettre ouverte, qui postule une division entre la lex orandi et la lex credendi dans l’Eglise et évoque le danger qu’il est inévitable « qu’une forme rituelle double et conflictuelle conduise à une division significative de la foi », méconnaît à la fois l’intention de Summorum Pontificum (cf. l’article précité n. 1) ainsi que le fait que le Missel de 1962 est une expression de la même foi que le Missel de Paul VI. Les deux décrets publiés aujourd’hui par la Congrégation pour la Doctrine de la Foi ne promeuvent pas la dualité mais – comme l’a demandé Benoît XVI – travaille à l’enrichissement mutuel des deux formes du rite romain. À ce sujet, Benoît XVI avait déclaré dans sa lettre d’accompagnement annexée au Motu Proprio Summorum Pontificum : « D’ailleurs, les deux Formes d’usage du Rite Romain peuvent s’enrichir réciproquement: dans l’ancien Missel pourront être et devront être insérés les nouveaux saints, et quelques-unes des nouvelles préfaces. La Commission « Ecclesia Dei », en lien avec les diverses entités dédiées à l’usus antiquior, étudiera quelles sont les possibilités pratiques ». C’est exactement ce qui s’est passé maintenant avec ces deux décrets ; ni plus ni moins !

Cette mesure ne se traduit donc pas par une rupture au niveau de l’Église, mais par un enrichissement dont de plus en plus de fidèles sont convaincus.

Il convient de signaler une dernière contradiction dans la lettre ouverte : les signataires déclarent : « il n’est plus logique de promulguer des décrets pour “réformer” un rite qui est fermé dans le passé historique, inerte et cristallisé, sans vie et sans vigueur. Il ne peut y avoir de réanimation de ce rite ». C’est précisément l’ajout de la forme extraordinaire (et non – comme le disent les signataires – le rite) qui montre clairement qu’elle n’est pas fermée dans le « passé historique », mais qu’elle peut se développer de façon organique. Le fait que la forme extraordinaire ne soit pas « sans vie ni sans vigueur » est démontré partout où on peut assister à une célébration eucharistique dans la forme extraordinaire du rite romain. Que cela convienne ou non aux soi-disant liturgistes.

Le mie risposte, in forma epistolare

Gentile P. Graulich,

mi permetta di rivolgermi a lei in forma quasi confidenziale, come a un religioso salesiano, anche se è una cosa rara nel mondo della ufficialità ecclesiale. Tanto più apparirà strana se uno ha avuto la pazienza di leggere la Lettera Aperta e la sua replica troppo sopra le righe. Per questo non voglio affatto sottrarmi al genere della “confutazione”, che lei mi ha imposto, ma desidero innanzitutto cercare di comprendere il punto di vista  da lei espresso come mio e nostro interlocutore. Lei ha scritto come un avvocato. Con le armi migliori di un bravo avvocato. Purtroppo però si tratta di “armi formali”, che restano sulla superficie dei problemi. Lei non entra mai in nessuna questione sostanziale e risolve tutto – o almeno, come vedremo, quasi tutto – sul piano del diritto. Mi pare che in questo modo qualcosa di importante non funzioni.

Andiamo per ordine. Le espongo soltanto i punti che sento più problematici e mi permetterà di farlo almeno con la stessa franchezza che lei ha ritenuto di usare nelle sue obiezioni.

a) In primis, Lei  tenta di squalificare e di liquidare la lettera nel quadro di “polemiche” successive a Summorum Pontificum. Diciamo, tra gli atti di insubordinazione. Questo, però, non squalifica, ma qualifica la lettera. E’ esattamente così. Quella lex, che Lei sembra assolutizzare, è soltanto un Motu Proprio che, non nella sua origine, ma già dopo pochi mesi dalla sua entrata in vigore, ha prodotto frutti che confliggono con il Concilio Vaticano II e con la Riforma Liturgica realizzata successivamente ad esso. Come può un giurista con responsabilità di governo non tenere conto che le leggi, tutte le leggi, possono avere dei problemi e possono causarne altri? Che la lex condita non è  “ultimo orizzonte che il guardo esclude”, ma deve essere considerata anche in rapporto ai fatti e alla “lex condenda”, di cui ogni bravo giurista deve sempre tener conto? Non credo di svelare nulla di nuovo ad un canonista esperto. Eppure lei sembra lavorare solo entro l’orizzonte angusto di un “diritto positivo”, segnato da una eccezionalità di cui lei non pare avere coscienza.

b) In secondo luogo, Lei si permette di dire che la lettera contiene idee false, (addirittura errori), e comunque esprime una mancanza di conoscenza e una lettura ideologica del contenuto di SP. Credo che un giurista dovrebbe essere abituato a misurare le parole. Perché se lei dice che i 180 firmatari – tra cui vi sono i massimi esperti tedeschi, francesi, statunitensi, spagnoli ecc. – dicono cose false, ma poi non riesce a spiegare in modo adeguato il contenuto del documento che pretende di difendere, le cose si mettono male. Lo dico proprio parlando ad un canonista. Perché il giurista, che legge SP, deve fare, come tutti, un atto di grande umiltà e capire che non è ripetendo una formuletta normativa che può risolvere un grande problema. Se lei vuole cavarsela con le formulette, mescolandole agli insulti contro 180 teologi, deve sapere che non è così che si affrontano i problemi istituzionali. Tenga conto che per mestiere, ormai da anni, ho imparato a non aver alcuna paura di queste tecniche da prepotenti privi di argomenti. Allora, se vuole, affrontiamo la cosa seria e vera. Che cosa noi non avremmo capito? Che si dovrebbe parlare di “due forme dello stesso rito romano”, e non di “due riti”? Sarebbe questo il problema? Ma Lei, Mons. Graulich, può dire di essere certo di sapere davvero di che cosa sta parlando?  Si è mai posto la domanda – sistematica, non giuridica – se sia sufficiente ripetere un articolo di SP per essere a posto con la propria coscienza? Si è mai chiesto davvero che cosa significhi la locuzione “due forme dello stesso rito”? Provo a spiegarglielo, con i pochi strumenti che ho a  mia disposizione.

c) La questione è seria, ma è anche semplice. C’era un rito del 1962, che Giovanni XXIII considerava provvisorio fino al Concilio e poi in effetti è venuto il Concilio stesso e la riforma che esso ha voluto di quel rito romano del 1962, che così è diventato il rito romano del 1970, approvata da Paolo VI. E’ chiaro che si tratta del medesimo rito romano, in una forma precedente e in una forma successiva. C’è piena continuità del rito, ma è evidente che non c’è continuità nelle forme. Il Concilio ha chiesto che per la continuità del rito le forme cambiassero. Fin qui è tutto chiaro? Voglio essere ancora più chiaro. Andrea Grillo e Markus Graulich, nel 1970, quando entra in vigore il rito riformato, avevano una forma, ma oggi, nel 2020, ne hanno un’altra. C’è piena continuità nelle persone: lei è sempre Markus e io sono sempre Andrea. Ma altro era lei ed ero io nel 1970, e altro sono io ed è lei oggi. Sarebbe molto strano che ci chiedessero oggi di essere come eravamo nel 1970, di correre e saltare come allora sapevamo fare così bene o di leggere poco o nulla come allora eravamo abituati. Perché la continuità della persona comporta la discontinuità delle forme. Così vanno le cose per tutto ciò che vive, anche per il rito romano, che ha avuto due forme differenti “in tempi differenti” della sua storia. Ma se due forme diverse dello stesso rito vengono rese contemporanee, non sono più due forme dello stesso rito, ma diventano “due riti diversi”. Che non possono andare d’accordo. Come se a lei chiedessero di essere, contemporaneamente, proprio oggi, un bambino del 1970 e un adulto del 2020. Quelle due forme, nella continuità storica della stessa persona, non si danno mai in forma contemporanea. Non si può mai vivere così. E nessuna legge, nessuna affermazione, nessuna invocazione e nessuna decisione potrà mai imporre che le cose siano così. Quello che è bianco non è nero, neppure se lo decide un papa. Il bianco resta bianco: un bravo giurista non dovrebbe mai dimenticare questa elementare verità.

d) Quindi, come vede, nel cuore di SP c’è un problema sistematico grosso come una casa. Questo problema è la chiave di interpretazione della Lettera Aperta. Ma lei non lo vede. Se un avvocato non riconosce questa evidenza, se pensa di arrampicarsi sugli specchi di un enunciato normativo, perde l’oggetto della discussione e entra nel tunnel delle finzioni. Vede, Padre, questo non significa in nessun modo negare che SP sia una legge ancora vigente, che con le modifiche normative di questi anni le competenze in ambito liturgico, limitatamente al rito straordinario, siano passate prima a Ecclesia Dei e ora alla CdF. Se lei legge bene la lettera, senza saltare le righe, vedrà che questo non è affatto negato, come invece lei pretende di farci dire. Ma qui sta il punto. Lei, come spesso fanno molti canonisti, identifica una legge con il bene. Ma non sempre è così. Ci sono leggi che non è opportuno applicare. Perché? Qui c’è un altro aspetto carente della sua lettura. Proprio all’inizio lei dice che nella lettera si chiede il passaggio delle competenze dalla CdF alla CdC. Ma se legge bene, vedrà che il punto decisivo non è affatto quello che lei dice. Anzitutto bisogna restituire la autorità sulla liturgia a chi per primo ce l’ha, ossia al singolo Vescovo diocesano nella sua diocesi. Non le Congregazioni e neppure il Papa immediatamente sono qui in gioco. I Vescovi non possono essere scavalcati. E mi stupisco che un giurista non abbia chiara questa nativa autorità episcopale sulla liturgia. In queste cose, il canonista dovrebbe sempre ripetere, come un dovere inaggirabile: guai a chi chiama male il bene e bene il male. Chiamare “arricchimento” la rottura della comunione ecclesiale resta un gioco di parole che manifesta un grave sottovalutazione della autorità episcopale e della verità della liturgia. E provi a chiedersi: se queste cose non le dice il canonista, chi dovrebbe dirle nella Chiesa? Perché i liturgisti devono fare il mestiere che dovrebbe fare lei?

e) Vede, proprio alla fine lei fa due salti mortali molto pericolosi, con i quali ci si può rompere l’osso del collo. Il primo è: dal diritto lei passa di colpo al fatto. Tutto il suo castello di norme eccezionali, nel momento in cui vuole difenderlo nella sostanza, lo riduce a un fatto. Noi, dico noi liturgisti, negheremmo il fatto e come tali saremmo altamente censurabili. Ma quale sarebbe il fatto? Lei allude al dato di fatto della possibilità di “assistere ovunque” a una messa in rito straordinario. Caspita! Quale fatto sorprendente! Lei però, nel momento in cui allega l’unico fatto a suo avviso  decisivo, commette una imprudenza, una grave imprudenza, perché accelera troppo nella argomentazione e  così allega male il suo fatto. Lei dice “assistere al rito straordinario”. Molto male. Ha scelto proprio il termine più infelice. Allora le dico una cosa. Lo sa che io “quel fatto” lo reputo impossibile? Lei si stupirà, resterà forse anche male, ma  “assistere ad una messa in rito straordinario” è proprio ciò che SC 48 vieta a tutti i cattolici, a lei come a me. Lo vieta anche ai giuristi. E lo fa fin dal 1963. Lo so che lei non ha l’abitudine di prendere sul serio i testi costituzionali e dà più valore a minuscoli decreti delle Congregazioni. E so bene che è proprio il suo mestiere – una piccola deformazione professionale, come le abbiamo tutti – a farle leggere le cose in modo impreciso. Ma proprio il “fatto” che lei pretende di allegare le dico che, proceduralmente, non è ammissibile. Sì, è inammissibile. Mi dispiace, sul piano della procedura non posso concederglielo. Ma, vede, non sono io ad essere così severo. E’ il Concilio Vaticano II, che non vuole “muti spettatori” delle liturgie eucaristiche. E che proprio per questo motivo decisivo ha chiesto e preteso che la Chiesa facesse la riforma del rito del 1962. Quel rito che ora lei si affanna a considerare intoccabile “in aeternum” il Concilio chiede che sia cambiato profondamente e irreversibilmente. E forse proprio questo benedetto testo conciliare, da parte sua, lo dico sul serio e senza alcuna ironia, avrebbe bisogno di una accurata ripassata.

f) Da ultimo, e in conclusione, lei non resiste ad opporre il suo presunto “fatto” ai “sedicenti liturgisti”che non vorrebbero riconoscerlo. Con i suoi fatti inammissibili lei vorrebbe mettere a tacere i liturgisti. Che invece parlano e non si fanno spaventare da formalismi vuoti. Tra questi liturgisti io le dico: sulla base del Concilio Vaticano II, lo stato di eccezione introdotto da SP, con le più nobili intenzioni di pacificazione 13 anni fa, ha generato e continua a generare invece lacerazione e confusione. Un numero considerevole di liturgisti, con senso di responsabilità, chiede formalmente: Che si ponga fine a questa condizione distorta. Che si restituisca autorità liturgica nelle singole diocesi ai Vescovi diocesani, come prescritto dal Concilio e dalla grande tradizione ecclesiale, insieme alla Congregazione per il culto divino. Che si esca dallo “stato di eccezione liturgica” che purtroppo altera in modo grave la normale vita liturgica della Chiesa.

Gentile Padre Graulich, provi a considerare la questione da questo punto di vista. E’ diverso dal suo, ma non è né falso né erroneo. Semplicemente guarda le cose da una prospettiva differente rispetto a quella di una scrivania di curia. Se prova a farlo anche lei, tutta la res le sembrerà molto diversa: come diceva un grande giurista romano: rem tene, verba sequentur.

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