Protocollo necessario di messe contagiose: per un opportuno discernimento
La firma di una “intesa” tra Governo e Chiesa cattolica, che fissasse un protocollo condivisibile e controllabile, a tutela della sanità pubblica in occasione di “raduni ecclesiali”, era un passaggio inevitabile e necessario. Come si è giustamente osservato, in un lucido commento di P. Consorti, alcune sbavature avrebbero potuto essere evitate: la posizione isolata e privilegiata del cattolicesimo rispetto alle altre confessioni cristiane e alle altre fedi religiose; la sovrapposizione tra registri civili e registri ecclesiali che non sembra adeguatamente calibrata; la sorprendente citazione della logica del precetto sottoscritta anche da ministri della Repubblica. Ma è certo che ora, sia pure con questi limiti, vi è un documento di riferimento che, a partire dalla data stabilita, potrà essere assunto come “norma” per celebrare ogni liturgia ecclesiale, salvo quelle esplicitamente escluse (ad es. la Confermazione). Curiosamente, nulla è detto delle liturgie di ordinazione: forse perché implicitamente escluse, o forse perché pensate senza popolo?
Una volta stabilito il quadro di fondo degli obblighi di legge, cui la Chiesa cattolica aderisce responsabilmente, si pone una questione del tutto diversa, ma altrettanto importante. Il protocollo fissa il quadro di una possibilità, ma lascia libera la Chiesa di considerare la opportunità della celebrazione. La libertà del culto, infatti, non è solo una forma giuridica civile, ma anche un contenuto della fede ecclesiale. Questo va considerato almeno per tre grandi motivi.
a) La messa è costitutivamente contagiosa.
Se è celebrazione eucaristica, la messa è contatto/contagio, nudità/riconoscimento, gusto di sostare/perdere tempo. E’ chiaro che il “desiderio di radunarsi” è rimasto sospeso per molto tempo e non vede l’ora di essere soddisfatto. La comunità si attende, nei registri del desiderio ecclesiale, le distanze che si accorciano, le mani che si intrecciano, la condivisione dello stesso pane e dello stesso calice, il canto comune e il fare corpo. Se la messa può essere celebrata solo se non la “celebriamo” (visto che celebrare vuol dire, letteralmente, accorciare le distanze e rendere un luogo “pieno di gente”), allora la valutazione se “sia il caso” deve essere fatta apertamente e comunitariamente. Non lo decide né il presidente del Consiglio, né il presidente dei Vescovi, ma ogni pastore con le sue pecore e ogni gregge con il suo pastore. La risposta non è scontata, né in un senso né in un altro: deve essere assunta in modo ecclesiale, non in modo burocratico. E deve evitare che la “messa” diventi “messa in scena”.
b) La messa è sorgivamente gratuita
Una messa “a prenotazione” è una contraddizione in termini. Esattamente come non bisogna dimenticare la bella espressione che Mariano Magrassi coniò, negli anni 70: “Meno messe, più messa”. La gratuità dell’agire eucaristico non permette né di “riservare i posti”, né di moltiplicare le “corse” per aumentare i passeggeri. La messa non è una metropolitana, che passa ogni 3 minuti. Anche perché uno degli effetti della metropolitana è proprio la assenza di comunità. Ovviamente le condizioni eccezionali possono permettere qualche margine di manovra eccezionale. Anche su questo piano si dovrà discernere con cura. E potremo scoprire che eravamo già “preservati dal contagio” prima ancora della pandemia, per lo stile con cui prendevamo posto e con cui tenevamo le distanze. Forse ora, essendoci imposto da un “protocollo”, potremo scoprire di saper desiderare e di poter sperare, tra non troppo tempo, di uscire da questo “autoconfinamento devoto”.
c) La messa è localmente radicata
Il terzo livello, che dovrà essere considerato, è la giusta differenza tra luoghi diversi, regioni diverse, chiese diverse. Pur essendo il protocollo necessariamente identico per tutto il territorio nazionale, altra cosa è assumerne la logica negli epicentri del contagio nazionale, altra cosa in zone intermedie, altra cosa ancora in zone del tutto periferiche rispetto al contagio. Anche in questo caso le decisioni delle diocesi e delle parrocchie potranno tenere nel debito conto queste indiscutibili differenze. Non per applicare in modo personalizzato il protocollo sanitario, ma per considerarne l’impatto diverso sulla vita delle persone e sulle simbolica delle chiese. Lo stesso protocollo può così risultare plausibile in una zona, discutibile in un altra, quasi improponibile in una terza.
Come è stata una forzatura considerare le difficoltà di concedere il “permesso di raduno ecclesiale” nei termini esasperati di una “oppressione della libertà di culto”, altrettanto forzato sarebbe pensare che, essendovi un protocollo formale, ogni cristiano cattolico, alle 7.30 del 18 maggio, avrà il diritto di bussare alla porta della chiesa e pretendere di avere pronta e disponibile la “sua” messa sicura, da “ascoltare” in presenza. Una recezione puramente “individuale” di un provvedimento che tutela la “comunità” sarebbe la peggior forma di servizio, sia alla salute della città, sia alla fede della chiesa.