Munera 1/2017 – Annamaria Cascetta >> Cultura teatrale e religione nell’Occidente cristiano

Storicamente contiguo alla pratica rituale e insieme ascrivibile all’area della pratica artistica, il teatro possiede connotati che lo rendono adatto a fare esperienza del religioso, se si assume il termine in senso lato, come domanda sul legame con il fondamento di senso dell’esistenza dell’uomo e del mondo. È una domanda che, formulata dall’artista teatrale, «si invera» direbbe un pioniere degli studi teatrali, Mario Apollonio, attraverso il segno scenico, nel corpo dell’attore e nel corpo del “coro”, ossia il pubblico (dove “pubblico” è inteso in un’accezione radicata nell’antico, ben più forte dell’idea moderna e voyeuristica di spettatore).

Oggi gli studi teatrali e i curricula universitari registrano anche in ambienti accademici laici e secolarizzati, per esempio anglosassoni, una rinnovata attenzione al rapporto fra religione e teatro. Declinata in espressioni differenti, quali «performance in religion», «religion in performance», «religion as performance», viene sostenuta l’opportunità di un’attenzione per questo tema della cultura (la religione, appunto) rimosso per varie ragioni rispetto ad altri temi più gettonati (il gender, il sesso, la classe, l’etnia, il postcolonialismo…). La religione è quindi indicata come elemento costitutivo dell’identità umana. Buon segno, ma è poco. La questione tocca infatti corde esperienziali che vanno al di là dell’opportunità di offrire un’informazione fra le altre all’interno di un programma di studi.

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