Il centenario della Grande guerra, come d’altronde era lecito attendersi, è stato innanzitutto l’occasione per dare vita a una serie di ampie ricostruzioni storiche che hanno celebrato l’anniversario inondando gli scaffali delle librerie europee. Abbiamo oggi tra le mani una valanga d’indagini recenti che esplorano qualsiasi aspetto, anche molto locale, delle vicende della Prima guerra mondiale. Tuttavia, almeno ai miei occhi, in questo vortice storiografico dove si trova di tutto, i lavori più interessanti restano quelli che tentano, ampliando una tradizione iniziata alla fine degli anni Settanta del Novecento, di mettere tra parentesi i dati propriamente storici, militari e geo-politici del conflitto, e s’impegnano ad analizzare la variegata costellazione culturale che la Grande guerra è in grado di provocare. Questi studi esplorano attraverso un ventaglio considerevole di piste teoriche sia la rottura epocale che la guerra rappresenta per la traiettoria del progetto moderno sia il peso della sua eredità – innanzitutto “categoriale” – per il secolo successivo, quando il primo conflitto mondiale si rivela uno vero e proprio “spettro” della nostra storia.
Sulla scia di questo genere di lavori intendo adesso individuare alcuni nodi teorici preliminari per allestire un’inchiesta sull’idea di confine, per vedere come esso venga alterato dall’esperienza della Grande guerra. Questa trasformazione è visibile oggi perché, a un secolo di distanza, il primo conflitto mondiale può essere considerato, prima di ogni altra cosa, una catastrofe antropologica. Ebbene, quando si manifesta una “crisi” antropologica, in realtà, la posta in gioco, lo dico qui molto rapidamente, è sempre “un” confine.