Munera 2/2019 – Editoriale

«Siamo autorizzati a pensare» ha più volte ripetuto l’arcivescovo di Milano Mario Delpini nel suo discorso alla città pronunciato in occasione della festa di Sant’Ambrogio del 2018. Un discorso che supera i confini della città di Milano e merita qualche riflessione.

Il discorso si costruisce attorno a un mantra continuamente ripetuto: «siamo autorizzati a pensare». Siamo autorizzati a pensare in un tempo in cui «l’intensità delle emozioni è particolarmente determinante nei comportamenti». Tempo in cui «ciascuno si ritiene criterio del bene e del male, del diritto e del torto: quello che io sento è indiscutibile, quello che io voglio è insindacabile». Tempo in cui molti «vivono le loro legittime aspettative con atteggiamenti di pretesa arrogante», esigendo «di essere serviti e ascoltati come se si fosse soli al mondo». Ma anche tempo in cui i cittadini si trovano alle prese con «procedure esasperanti», tutt’altro che ragionevoli.

Rispetto a tutto questo, Delpini formula l’auspicio «di una ragionevolezza diffusa»: «essere persone ragionevoli è un contributo indispensabile per il bene comune». Auspicio che egli pone sotto il segno di Populorum progressio, l’enciclica di Paolo VI del 1967: «il mondo soffre per mancanza di pensiero» (n. 85).

Che cosa dunque significa pensare? Delpini richiama in proposito le responsabilità degli intellettuali e degli studiosi, ma non delega del tutto ad essi il compito: «Forse insieme possiamo coltivare un senso di responsabilità che ci impegna a un esercizio pubblico dell’intelligenza, che si metta a servizio della convivenza di tutti, che sia attenta a dare la parola a ogni componente della città, che raccolga l’aspirazione di tutti a vivere insieme, ad affrontare insieme i problemi e i bisogni, a recensire insieme risorse e potenzialità».

Secondo Delpini, scopo di tale esercizio pubblico dell’intelligenza è costruire una «visione di futuro» condivisa, che abbia i suoi riferimenti in una «Europa come convivenza di popoli» e nella «Costituzione della Repubblica italiana», la quale rappresenta innanzitutto «un metodo di lavoro, che vale anche per noi: le differenze si siedono allo stesso tavolo per costruire insieme il proprio futuro».

Ora, che il vescovo di una diocesi importante come Milano dica che siamo autorizzati a pensare non è banale. E non lo è per vari motivi e su vari piani.

Non lo è sul piano civile, laddove è evidente un divorzio tra la libertà e il dovere di pensiero, da una parte, e tra la libertà e il dovere di parola, dall’altra. La sovranità è del popolo, ci viene oggi ripetuto a sfinimento. Ed è giusto. Ma il popolo deve meritarsela, aggiungeva un pensatore troppo dimenticato come Giuseppe Capograssi: in democrazia, la libertà di parola non può che accompagnarsi a un dovere di pensiero, esattamente come la libertà di pensiero esige – in alcuni momenti – un dovere di parola. Oggi tutti parlano, e giustamente lo rivendicano come un diritto. Ma chi si assume la fatica del pensare? Del distinguere? Dell’approfondire e del continuare a cercare? Oggi pochi pensano in maniera sistematica, assumendosene seriamente il peso e la fatica. Ma chi, tra questi, si assume anche i rischi del parlare?

Rispetto a tutto questo, le parole dell’arcivescovo Delpini indicano una direzione e una responsabilità urgente. Pensare è un compito non più rinviabile e che non può semplicemente essere delegato a pochi, sebbene ad alcuni tocchi una responsabilità aggiuntiva: quella di provare a fare sintesi, a immaginare vie percorribili, a elaborare parole. Un popolo si costruisce anche pensando: elaborando pensiero, visione. Non proposte dotte, teorie scientifiche. Occorre cultura, e la cultura non è scienza. Ma la scienza è una delle componenti della cultura: non l’unica, non l’ultima.

L’idiosincrasia diffusa verso i “tecnici” e gli intellettuali trova le sue buone ragioni in un evidente “tradimento dei chierici” consumato da tempo. Troppe letture della realtà sembrano più il ritratto delle dinamiche interne a un dipartimento universitario che non il frutto di un vero e proprio ascolto di quello che si produce sotto i nostri occhi: il mondo – fortunatamente – non è fatto di professori universitari, né questi costituiscono il paradigma di un’umanità compiuta. Troppo spesso l’ansia dell’originalità tradisce l’esigenza della verità. Troppe volte il (pur legittimo) desiderio dell’affermazione personale cancella ogni responsabilità sociale.

Le accademie – per definizione – producono scienza, non cultura. Ma agli intellettuali spetta il compito della sintesi e della traduzione, affinché quella scienza contribuisca a elaborare cultura.

Se vogliamo che il pensiero sia riconosciuto nella sua dignità, occorre che gli intellettuali offrano esempi credibili di un pensiero attento alla realtà, non autoreferenziale e responsabile.

Ma il discorso di Delpini non è banale neanche sul piano ecclesiale. Si tratta di un aspetto non sviluppato dall’arcivescovo, dato che il discorso di Sant’Ambrogio è tradizionalmente rivolto alla città e non alla comunità ecclesiale. Eppure si tratta di un’applicazione che non possiamo esimerci dal fare. Siamo autorizzati a pensare anche all’interno della Chiesa? Che cosa ne è della libertà di pensiero e del dovere di parola all’interno della comunità cristiana? Chi oggi, tra i battezzati, è davvero capace di pensiero e di parola? Chi è formato e pronto per questo? Che investimenti si sono fatti e si fanno perché ci sia – nella comunità cristiana – chi è capace di pensiero e di parola? Che cosa ne è dell’esercizio del pensiero teologico? Chi si assume il rischio di tale esercizio, per definizione fallibile?

«Siamo autorizzati a pensare» è uno slogan bello, che intercetta un’urgenza e richiama a una responsabilità, civile ed ecclesiale. È importante che l’invito sia venuto da un vescovo. Ma una domanda rimane: chi oggi, dentro e fuori la comunità cristiana, ha paura del pensiero?

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