“Un virus contro il Concilio”: un articolo di Pierre Vignon
Il dibattito sullo “stato di eccezione liturgica”, determinata dal MP Summorum Pontificum, continua ed anzi si intensifica. Pubblico in formato immagine una scintillante riflessione sulle contraddizioni che la “doppia forma del rito romano” determina nella vita ecclesiale da 13 anni. Nonostante le intenzioni di riconciliazione, con cui il documento era stato concepito e voluto, l’effetto è stato e continua ad essere lacerante e traumatico. Ritrovare una condizione di “normalità ecclesiale”, nella quale una sola forma rituale costituisce la regola comune e necessaria, è l’oggetto di una riflessione originale e scritta con grande parrhesia. Anche il titolo è originalissimo: “Un virus contro il Concilio”. L’articolo è di Pierre Vignon, noto canonista francese, che ringrazio per aver messo a disposizione il testo, che stato appena pubblicato su Golias Hebdo n° 621 semaine du 23 au 29 avril 2020, 18-20.
Io continuo però a non capire perchè il VO sarebbe una cotraddizione, cioè lacerante e traumatico, e tutti gli altr riti no. Boh! Mi sfugge ancora di più il nesso poi tra Riforma Liturgica 1969 e Concilio. Come se la Riforma Liturgica 1969 fosse l’unica possibile.
Non è l’unica possibile. Ma è l’unica reale.
L’unica reale per il momento. Mi pare che l’intento del SP fosse quello di riaprire una discussione sulla rifoma liturgica, riguardo alla quale il NO non è certo una meraviglia (preciso che io sono nati alla fine degli anni Settanta e quindi non sono un nostalgico del VO). Pertanto lo stato di eccezionalità sarà supertao, non abolendo il SP, ma portando a compimento la Riforma Liturgica. Nel NO sicuramente giustamete si è posto l’accento sulla comunità, sulla cena, sulal Parola, ma lo si è vatto a discapito del sacrificio e della presenza. Il NO è tutto piatto, tutto orizzontale, manca la verticalità. Sembra che la comunità celebri se stessa, fino a rendere superfluo Cristo. Invece bisogna tornare a capire che ci raduniamo intorno a Lui e di conseguenza siamo comunità, che il Sacrificio diventa pasto, che la Parola si è incarnata (in un sacrificio che diventa pasto) e che , da un certo punto di vista, in ogni Mesas si ricapitola l’intera storia della salvezza, si fa memoria della storia dell’amore di Dio e del compimento di questo amore in Gesù per fare anche (non solo certamente), attraverso la memoria (e la riattualizzazione o meglio il rendere vivo e presente), l’identità della comunità. Nel NO non c’è più identità, perchè alla lunga non si capisce più che il nostro essere comunità “discende” da Lui. Ergo è urgente (ovviamente io non sono nessuno per dirlo, ma solo un povero appassionato al tema, che dovrebbe studiare molto prima di fare affermazioni in senso assoluto) fare la Riforma della Riforma.
Ma non si può giocare su due tavoli, perché questo assicura soltanto la divisione nella Chiesa. L’unica riforma reale è quella che abbiamo fatto dopo il 1964. Non ci sono altri riti paralleli, solo riti precedenti non più vigenti. SP ha sbagliato completamente strategia: creando parallelismo ha bloccato ogni forma nei suoi limiti. Solo accettando l’unico tavolo, ossia quello votato da più di 2000 vescovi, si può lavorare bene. Ma non direi mai che la “verticalità” è assicurata dal “clericalismo”. Qui c’è un equivoco, non liturgico, ma teologico e ecclesiologico. Lavoriamo, invece, per recepire il NO anche come insieme di “linguaggi non verbali”. Questo è serio, non mettergli in concorrenza le cariatidi del passato.