SettimanaSul n. 32 di della rivista “Settimana” è stato pubblicato l’intervento di Don Luigi Villanova, che affronta con coraggio una questione centrale per la Chiesa contemporanea. Lo riporto qui di seguito:

 Un’altra prassi per ordinare i preti?

Sono un giovane prete appartenente alla diocesi di Vicenza. Desidero condividere alcune riflessioni sulla modalità attuale di esercitare il ministero presbiterale, che nascono sia dal mio vissuto personale che da un confronto assiduo con qualche amico. Non pretendo di dire l’ultima parola e nemmeno di essere originale, ma semplicemente di proporre qualche pensiero. Mi pare che le proposte di riflessione di fondo e attuative sul ministero elaborate a livello di chiesa locale e universale, riguardino per lo più il vissuto personale dei preti: si va dall’auspicio per un rinvigorimento della preghiera personale, alla riscoperta del proprio legame con Gesù pastore e così via. Senz’altro aspetti importanti, ma che incidono poco sulla struttura del ministero che, a mio modesto avviso, andrebbe profondamente rivisitata.
Secondo me il punto d’ingresso – e di rottura – della questione è la prassi d’individuazione e abilitazione dei candidati. Oggi l’accesso al ministero avviene sostanzialmente per desiderio personale: è il singolo che pensa in cuor suo di dare senso alla sua vita spendendola per gli altri e il vangelo, decidendo di diventare prete. In una simile visione il ministero coincide totalmente con la persona: «fare il prete» si identifica con «l’essere prete». Decisiva, allora, non è la funzione specifica originaria del presbiterato che, se capisco bene, in sé è circoscritta «semplicemente» alla presidenza comunitaria, ma l’interpretazione che ne scorge un «modo» per dare senso alla propria vita. Mi parrebbe, invece, che il ministero sia da intendere come un servizio dal profilo altamente oggettivo, da esercitare solo per uno scopo ben preciso: il modo, che è il contenuto stesso, lo ricevi dalla Chiesa e lo eserciti solo per ciò che lei ti chiede. A tal punto che se non viene esercitato per la sua specifica finalità (ossia la presidenza comunitaria), esso, per così dire, gira a vuoto. E in certo senso, che ci sia o meno, alla fine è lo stesso.
Ora, se non presiedi effettivamente una comunità, o almeno non hai un qualche legame con essa, di fatto non eserciti il ministero. E se non lo eserciti così – mi chiedo – ha ancora ragione d’esserci?
Comunemente si pensa invece che, nel caso di un maschio, ci sono due modi per «realizzarsi»: o ci si sposa, o si diventa preti. In questa alternativa, però, si mettono sullo stesso piano uno stato di vita (il matrimonio), e un ministero ordinato che di per sé stesso stato di vita non è. Questo è l’equivoco fondamentale.
Secondo l’etimologia stessa, in effetti, si tratta di un servizio (comunitario); e pertanto, analogamente ad ogni servizio pubblico di guida esercitato in favore d’altri, dovrebbe esso stesso essere assunto mediante l’espressione di una volontà comune largamente condivisa. La procedura attuale invece è all’insegna di una pressoché esclusiva autocandidatura; è indubbiamente vero che tale proposizione di sé è passata al setaccio dal gruppo degli educatori del seminario e che all’approssimarsi del sacramento c’è anche un certo coinvolgimento di altri nel discernimento (parroci, pubblicazioni e altro). Tuttavia, se il desiderio non presenta particolari anomalie o devianze, non ci sono generalmente grossi intoppi al raggiungimento della meta desiderata. Del resto è comprensibile che non ci siano seri motivi di ostacolare un desiderio su cui, dopo accurate analisi, non si abbiano gravi perplessità. Questa modalità prevalentemente soggettiva restituisce persone che, cercando la propria strada nella vita, ad un certo momento «sentono» la chiamata ad una dedizione totale al Signore. Così vengono ordinate le dedizioni personali. Può accadere che dopo un’«esperienza forte», uno senta dirompente dentro di sé la chiamata, entra in seminario e diventa prete; bene, sulle buone intenzioni nessuno si permette di sindacare. Ma la Vocazione non è una buona intenzione. Da quale Chiesa è stato chiamato? Per quale concreto bisogno? Chi l’ha autorizzato?
 Questo modello «vocazionale-personale» è, se mi posso esprimere così, primariamente in ordine all’integrazione della persona (si parla infatti di ricerca vocazionale). In effetti si assesta lungo l’asse io-Dio: la comunità, se pur costituisce certamente l’ambito dell’impegno del prete, rimane per lo più l’oggetto della sua attività pastorale. Perciò nell’opinione collettiva il buon funzionamento di una parrocchia viene quasi sempre attribuito al carisma personale del parroco o dei preti che la presiedono, e non invece all’effettiva cooperazione di tutti i soggetti della comunità.
Mi sentirei di dire che tale modello vocazionale-personale, se ci ha portato bene fin qui donando alla Chiesa i preti di cui aveva bisogno, ora ha compiuto il suo corso.
Mi sto convincendo sempre più, infatti, che la questione del ministero presbiterale non è tanto personale, quanto ecclesiologica: ovvero quale paradigma di chiesa intendiamo adottare. Perché, se è quel servizio di ancoraggio alla radice apostolica della vita comunitaria, non può assurgere a coronamento di un desiderio personale, ma dovrebbe rispondere piuttosto alla richiesta che nasce dal diritto di una determinata comunità ad essere presieduta. Come scegliamo (dovremmo scegliere!) i capi della società civile, analogamente anche la comunità cristiana dovrebbe potere eleggere il suo prete, che allora sì pienamente la presiederebbe, in persona Ecclesiae. Presiederebbe cioè la chiesa che è diventata responsabile di sé eleggendolo attraverso quel processo faticoso e spesso anche doloroso, ma tuttavia necessario per diventare adulti, che si chiama discernimento comunitario: di cui tutti ci riempiamo la bocca, che è tanto di moda sbandierare nelle nostre riunioni e che pratichiamo abbastanza di rado.
Meglio dissipare subito un equivoco: non intendo distribuire in giro cartelle elettorali, perché il punto decisivo non è quello di compensare con un po’di democrazia. Resterebbe infatti una mera aggiunta estrinseca al sistema vigente. L’idea sarebbe di attuare un modello ecclesiale in cui è la Chiesa stessa soggetto effettivo della sua vita ed è lei, presieduta dai suoi responsabili, a generare continuamente sé stessa.
Perché allora non ripensare il ministero all’interno di questo modello? Quindi la Chiesa che si articola in ogni singola comunità, sente nell’ascolto dello Spirito ciò di cui ha effettivamente bisogno; sceglie le persone che lei ritiene più adatte; propone con una certa autorevolezza le candidature su cui ha pregato e discusso. Ovviamente ogni passaggio deve necessariamente avvenire in costante comunione con il Vescovo che è il garante supremo dell’unità e apostolicità. Va da sé che una prassi così non si può lasciare al caso o alla spontaneità, ma necessiterebbe di un regolamento molto preciso tutto da pensare, da redigere a livello di collegio episcopale ampio, e della necessaria conferma del Vescovo di Roma.
Però, alla fine, sarebbe così visionaria? È possibile invece supporre che la Chiesa neotestamentaria avesse una soggettualità così forte? Io credo di sì. Recensire esaustivamente qui il dato biblico comporterebbe una trattazione troppo dilungata. Però, mi sembra si possa intravvedere un luogo topico di questo presunto agire ecclesiale nella cosiddetta «istituzione dei Sette» riportata al capitolo sesto del libro degli Atti. Peraltro un passaggio affatto marginale perché si tratta della prima divisione interna all’embrione cristiano: tra la costola giudaica e l’altra proveniente dai greci. Sarebbe difficile, dunque, non riconoscervi un certo valore paradigmatico.
Comunemente, vi si ravvisa l’istituzione del diaconato. In realtà si tratterebbe della ricerca di responsabili per i piccoli gruppi di cristiani provenienti dal contesto ellenistico. Per quanto ci riguarda, è interessante notare la dinamica che si dispiega. I Dodici, infatti, dopo essere stati contattati, affermano: «Dunque, fratelli, cercate fra voi sette uomini di buona reputazione […] ai quali affideremo quest’incarico. […] Piacque questa proposta a tutto il gruppo e scelsero…» (At 6, 3.5). La piccola comunità, sollecitata e confermata dai Dodici, sceglie al suo interno le persone che ritiene abili per la presidenza. Se posso permettermi un po’ di benevola leggerezza, non credo che questi uomini abbiano fatto un cammino di ricerca vocazionale per capire se quella era la loro strada nella vita, o l’ideale di realizzazione personale. Il bisogno reale piuttosto, richiede che qualcuno scelga di essere scelto. Ecco che il soggetto agente del ministero è composto in quanto triangolare: il diritto della comunità ad essere presieduta, la risposta del singolo alla Chiesa reale che lo interpella e la conferma apostolica con l’imposizione delle mani.
Tale ordinamento ecclesiale, allora, prevede che siano le comunità ad eleggere il proprio presbitero dai cristiani che la compongono. Ho detto «eleggere», non «ordinare» (infatti solo l’ordinazione sacramentale garantisce che il ministero viene svolto in persona Ecclesiae, e indisgiungibilmente in persona Christi Capitis. In termini più semplici: che il ministero e l’Eucaristia presieduta dal prete, non è solo il risultato della nostra azione, ma un dono che viene dall’alto. Mi sembra garantisca ciò l’insegnamento di Lumen Gentium 10).
L’ordinazione spetta al vescovo, che solo così conferma nel sacramento la fondatezza di un carisma che c’è già: nel lavoro condotto con onestà, nell’eventuale famiglia a cui si è fedeli, nella fede attestata. Il fatto che poi sia celibe o sposato, diventerebbe un problema in certo senso secondo, in quanto si tratta della sua scelta di vita su cui nessuno va a sindacare o che nessuna istanza pone più come condizione discriminante (discriminatoria?) per esercitare quello specifico ministero. Essendo questo un punto particolarmente delicato, tento di chiarire ulteriormente. Non vedo motivo che la Chiesa che sceglie per un ministero, ne predetermini lo stato di vita. Un ministero (anche quello ordinato) è tale in qualsiasi stato di vita: pertanto non ne dovrebbe presupporre nessuno. A mio avviso, l’attorcigliamento plurisecolare di celibato e presbiterato, ha indotto surrettiziamente nella coscienza comune l’idea che, alla fin fine, solo il primo sia la condizione migliore del secondo. Molto umilmente mi sento di affermare che le presunzioni di esclusività o di speciale affinità dello stato celibe per la migliore realizzazione di questo specifico ministero, non abbiano dal punto di vista biblico e teologico nessun fondamento. Pertanto nessuno dei due, celibato o matrimonio, è l’esclusiva condizione aprioristica per un ministero migliore, perché, piuttosto, è il ministero a innestarsi in una condizione già presente – quale che sia ‒ e prenderne la sua specifica ricchezza. In tal modo, accanto ad un ministero celibe, si recupererebbe tutta la potenza simbolica di un ministero sposato, di cui oggi la Chiesa Cattolica Latina è impoverita.
Non sono così sprovveduto dal pensare che questo modello sia esente da storture, da rischi e persino fallimenti. Ma d’altra parte, parliamoci chiaro, quello presente lo è..?
Anche per questo crederei che nemmeno l’attuale prassi sia l’assoluta. Perché allora non provare a pensare ad un’alternativa?
Questo scritto non ha altra pretesa che essere una modesta provocazione proprio a ciò.

Don Luigi Villanova

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