A proposito del “Sussidio” per i confessori


La penitenza non sta tutta nel confessionale
Osservazioni su “ IL SACERDOTE MINISTRO DELLA MISERICORDIA DIVINA.
Il recente Sussidio della Congregazione per il Clero dal titolo “Il sacerdote ministro della misericordia divina” presenta alcune prospettive di riflessione e di ausilio sul sacramento della confessione in rapporto alla identità del ministro e del penitente. Questa chiave di lettura, che si lascia ispirare dalla eredità dell’”anno sacerdotale”, e che si nutre di abbondanti citazioni dal Curato d’Ars, manifesta tuttavia un profilo di approccio al sacramento che solleva qualche legittima perplessità. Qui vorrei brevemente segnalare alcune di queste zone d’ombra.
Anzitutto una notazione di carattere generale, sulla condizione del sacramento della penitenza e sulla sua funzione in ordine alla identità cristiana. Va ribadita la sua necessità per rimediare al peccato del battezzato che ha messo in gioco la sua comunione con Cristo e con la Chiesa. Questo, tuttavia, delimitando l’ambito di competenza del sacramento, rimanda ad una esperienza più ampia di penitenza, che la vita battesimale ed eucaristica dischiude al cristiano. Per questo gli antichi parlavano di penitenza come virtù e di penitenza come sacramento. Il compito del sacramento non è di sostituirsi alla virtù, ma di riattivarla. Per questo la penitenza cristiana non potrà mai stare tutta nel confessionale. Il documento che consideriamo, invece, tende ad accreditare l’idea – diffusasi soprattutto negli ultimi tre secoli – che la penitenza cristiana, nel suo esercizio e nella sua forza, coincida con la confessione sacramentale.
Qui si aprono almeno tre fronti problematici, che occore segnalare alla attenzione della Chiesa. Anzitutto il rapporto tra penitenza e eucaristia. Resta vero, e non potrebbe essere altrimenti, che chi ha perduto il rapporto di comunione con Cristo e con la Chiesa, può riaccedere alla comunione sacramentale soltanto dopo il percorso penitenziale del sacramento del perdono, che è fatto dai tre atti del penitente e dalla assoluzione del ministro. Questo fatto, tuttavia, non può interferire con la grande assemblea eucaristica, durante la quale non è bene che si celebrino, parallelamente, le confessioni. Proprio la giusta insistenza con cui il documento sottolinea la natura celebrativa del sacramento dovrebbe escludere, almeno ordinariamente, la contemporaneità tra celebrazione della eucaristia e celebrazione della penitenza.
Non è forse questa la mens con cui i Prenotanda al rito della Penitenza insistono sui “tempi diversi”? Riascoltiamone la voce:
“La riconciliazione dei penitenti si può celebrare in qualsiasi giorno e tempo. Conviene però che i fedeli sappiano il giorno e l’ora in cui il sacerdote è disponibile per l’esercizio di questo ministero. S’inculchi comunque nei fedeli l’abitudine di accostarsi al sacramento della Penitenza fuori della celebrazione della Messa, e preferibilmente in ore stabilite (Praenotanda al rito della penitenza, n.13)
Questo, evidentemente, non esclude che si possa derogare a questo principio, ma solo in casi eccezionali. Dovrebbe essere chiaro, invece, che la logica portante non è “l’offerta indiscriminata di un confessionale disponibile durante la messa”, ma la attenzione a creare tempi diversi per diverse celebrazioni. Questa è una esigenza comunitaria superiore al diritto dei singoli penitenti e ai doveri dei ministri. Il dono del perdono è più alto dei diritti e dei doveri. Questo orientamento delle priorità, tuttavia, non risulta dal documento, che preferisce, invece, seguire una via diversa e ragiona in termini di carità pastorale, secondo cui
“« la mancanza di disponibilità ad accogliere le pecore ferite, anzi, ad andare loro incontro per ricondurle all’ovile, sarebbe un doloroso segno di carenza di senso pastorale in chi, per l’Ordinazione sacerdotale, deve portare in sé l’immagine del Buon Pastore. […] In particolare, si raccomanda la presenza visibile dei confessori […] e la speciale disponibilità anche per venire incontro alle necessità dei fedeli durante la celebrazione delle SS. Messe ». Se si tratta di una « concelebrazione, si esorta vivamente che alcuni sacerdoti si astengano dal concelebrare per essere disponibili per quei fedeli che vogliono accedere al sacramento della penitenza » (n.56)
Mi chiedo: è vera carità pastorale rendere possibile un continuo parallelismo tra diverse forme celebrative? Quanto conta, per una tale soluzione, la fondamentale acquisizione della “partecipazione attiva” come criterio fondamentale di accesso e di identità per qualsiasi sacramento (eucaristia o penitenza che sia)? Risolvere la questione solo con il concetto di “carità” rischia di oscurare un valore molto più alto, ossia il costituirsi stesso del Corpo di Cristo.
Un secondo aspetto del documento segnala un altro versante problematico di questo Sussidio. Si tratta di quella differenza interna alla tradizione antica, medievale e moderna, che riafferma, in vari modi, la necessità di due approcci diversi al sacramento: da un lato la sua necessità e dall’altro la sua raccomandabilità. Quando c’è peccato grave, solo il sacramento della penitenza può rimediare; quando c’è peccato non grave, il sacramento ha una funzione di “devozione”. Tecnicamente, non è necessario, poiché non c’è scomunica da cui essere assolti. Si può capire, evidentemente, che il documento sottolinei in modo quasi indistinto la identità di questi due versanti, quando dice:
La confessione frequente, anche senza peccato grave, è un mezzo raccomandato costantemente dalla Chiesa allo scopo di progredire nella vita cristiana.” (n.19)
La confessione frequente, quando vi sono soltanto peccati lievi o imperfezioni, è come una conseguenza della fedeltà al battesimo ed alla confermazione, ed esprime un autentico desiderio di perfezione e di ritorno al disegno del Padre, perché Cristo viva veramente in noi per una vita di maggiore fedeltà allo Spirito Santo. Per questo « tenendo conto della chiamata di tutti i fedeli alla santità, si raccomanda loro di confessare anche i peccati veniali»” (n.50)
E’ legittimo chiedersi se questo assetto, che si è sviluppato dopo il Concilio di Trento in modo grandioso e articolato, non sia entrato in crisi già due secoli fa e non abbia creato la situazione di disagio in cui da un secolo ci troviamo. Intendo dire che la pretesa per cui la confessione e il confessionale dovrebbero assorbire tutta l’esperienza penitenziale del cristiano battezzato appare come un che di “troppo” rispetto a ciò che il sacramento offre e pretende. Poiché, lo ripeto, lo scopo del sacramento è di riabilitare il cristiano a quella esperienza del peccato perdonato che può e deve fare nella vita battesimale e eucaristica. I secoli antichi, medioevali e moderni hanno sempre saputo che sono numerosi i mezzi per superare il peccato non grave (la preghiera, l’ascolto della parola, la celebrazione eucaristica, l’aiuto al povero…): perché mai oggi dovremmo dimenticarlo? Perché rimuoverlo? Perché clericalizzarlo?
Infine, un’ultima annotazione riguarda il tono più generale del documento, che si riflette bene nelle due pagine introduttive stese dal Card. Mauro Piacenza, Prefetto della Congregazione per il Clero. Da esse emerge, per così dire, un progetto di identità del presbitero quasi depurata da ogni dinamica pastorale. O, per meglio dire, dove la pastorale è ridotta alla devozione degli individui (ministri e penitenti). Quasi come se la preoccupazione di una efficace cura pastorale avesse distratto i presbiteri da evidenze più elementari e in qualche modo autoevidenti, come la disponibilità ad ascoltare la confessione dei peccati:
“La riscoperta del sacramento della riconciliazione, come penitenti e come ministri, è la misura dell’autentica fede nell’agire salvifico di Dio, che si manifesta più efficacemente nella potenza della grazia, che nelle umane strategie organizzative di iniziative, anche pastorali, talvolta dimentiche dell’essenziale”. (p.3)
Tutto ciò che è capitato dagli inizi del ‘900 ad oggi come potrebbe essere pienamente compreso se volessimo ragionare davvero in questi termini? Possiamo semplicemente considerare superata questa “rinascita pastorale” da una impostazione individualistica e devota della identità del ministro e del penitente? Non è proprio quella identità devota ad aver subito la crisi più grave? Non sta proprio lì il cuore della crisi del sacramento?
Siamo proprio certi che
“Tale esperienza contribuirà ad evitare quelle « fluttuazioni identitarie », che non di rado caratterizzano l’esistenza di taluni presbiteri” (p.4)?
Le “fluttuazioni identitarie” sono sghiribizzi senza fondamento di uomini allo sbando o la presa di coscienza che non si può più essere né ministri né penitenti nelle forme di linguaggio, negli stili di preghiera o secondo i costumi della prima metà del 1800?
La prova della fragilità di questo approccio, troppo lontano dalla sensibilità pastorale più radicata e significativa, si legge a chiare lettere nella sentenza che sigla in qualche modo simbolicamente questo modo di considerare il problema:
“Laddove c’è un confessore disponibile, presto o tardi arriva un penitente; e laddove persevera, persino in maniera ostinata, la disponibilità del confessore, giungeranno molti penitenti!” (p. 3)
Che cosa si esprime qui? Forse una evidenza del senso comune? Non direi proprio. Direi invece che questa, che sembrerebbe la soluzione, è oggi il primo livello con cui possiamo costatare il problema: è così da molti decenni, da quando la Chiesa non si può più identificare semplicemente in un prete disponibile ad ascoltare le confessioni, magari durante la messa. Aver usato il Curato d’Ars come ispiratore di tutta questa impostazione non è casuale, anche se fa torto al grande presbitero di quel tempo. Poiché egli non era semplicemente un prete a disposizione dei peccatori, ma era un uomo acuto, coraggioso, originale, sorprendente. Il suo carisma trasformava in evento la sua disponibilità. E questo gli permetteva di giudicare “salvo” anche un suicida, cosa che è difficile sostenere oggi, anche pubblicamente, e possiamo immaginare quanta profondità e lungimiranza dovesse richiedere quasi 200 anni fa. Di fronte alle perplessità dei parenti, egli affermava del malcapitato:
“Vi dico che egli è salvo, si trova in Purgatorio, e si deve pregare per lui. Tra il parapetto del ponte e l’acqua ha avuto il tempo di fare un atto di contrizione”.
Questa libertà di Spirito è il tratto straordinario, che fa di questo parroco un grande interprete del suo tempo. In che cosa dovremmo imitarlo? Che cosa è essenziale e che cosa è caduco nella sua testimonianza di fede? Non credo che oggi saremmo fedeli seguaci della sua grande sapienza pastorale ed ecclesiale se confessassimo i penitenti durante la messa, se non distinguessimo accuratamente tra penitenza necessaria e penitenza di devozione e se pensassimo che la soluzione al problema del fare penitenza nella Chiesa dipenda essenzialmente dal tempo che un prete trascorre “nel confessionale”. Il Curato d’Ars, se fosse qui, ci stupirebbe con ben altre prospettive, con ben altre mosse, con ben altra libertà.
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