Alla scoperta di Amoris Laetitia (/13): la tensione tra dogmatica giuridica e dogmatica teologica.
Nel percorso di approfondimento del testo della Esortazione Apostolica AL ho letto oggi con grande interesse il contributo di Massimo Nardello (Amoris Laetitia: osservazioni teologiche, su SettimanaNews all’indirizzo http://www.settimananews.it/chiesa/amoris-laetitia-osservazioni-teologiche/) come quello di Stefano Ottani sulla stessa rivista on-line (http://www.settimananews.it/famiglia/al-il-compito-affidato-ai-presbiteri/). Questi interventi, pacati e meditati, chiariscono molto opportunamente una questione decisiva per comprendere il testo e il suo approccio all’amore, al matrimonio e alla famiglia.
Vorrei procedere ad una esame del nucleo di questi testi stimolanti, per coglierne alcune conseguenze non solo a livello teologico, ma a livello del rapporto tra teologia e diritto.
In particolare vorrei mettere in luce come la “teologia tradizionale” – con cui si intende qui soltanto la risposta che l’ultimo secolo ha dato alle questioni nuove sorte nel XIX secolo – abbia attestato la non facile elaborazione di una “dogmatica teologica” che si è distinta progressivamente da una “dogmatica giuridica”, che restava (e spesso resta ancor oggi) nello splendido isolamento di una autoreferenzialità senza vera responsabilità pastorale e con un minimo riferimento al reale.
In questo punto delicato oggi si colloca anche la recezione di AL. Che a breve e medio termine avrà a che fare sicuramente con il discernimento di Vescovi e presbiteri. Ma che a lungo termine dovrà elaborare una “nozione oggettiva di matrimonio” diversa da quella elaborata tra il 1917 e il 1983. Ma procediamo per ordine.
a) “Ciò che non muore e ciò che può morire”
Dante ci offre questa bella immagine del creato. La differenza tra questi due “poli” della esperienza umana e cristiana pone anche alla tradizione cattolica una questione decisiva: in quale relazione collochiamo la sostanza e gli accidenti, l’essere e il divenire, la presenza e la assenza della tradizione matrimoniale? Vi è, nella tradizione alla quale apparteniamo, una “sostanza della antica dottrina” che può avere “formulazioni diverse del proprio rivestimento”? In altre parole: in che cosa siamo “vincolati” e in che cosa, invece, siamo liberi? Le analisi di Nardello e di Ottani offrono una bella ricostruzione del “discernimento tradizionale” – molto più semplice e facile – e della “evoluzione attuale”. Ma segnalano anche, con lucidità, una questione di fondo, ossia la esigenza di ripensare non solo la correlazione tra oggettivo e soggettivo, ma la stessa riformulazione oggettiva di ciò che è “canonico”. Perché la esigenza di salvaguardare la “santità della Chiesa” deve essere pensata come delicata correlazione tra Parola di Dio, dottrina e disciplina, senza alcuna possibilità di affidare solo al diritto canonico la prerogativa di definire questo rapporto in modo assoluto. Anzi, proprio a questo livello mi sembra di poter notare una “vistosa discrepanza” tra la “dogmatica giuridica” (statica) e la “dogmatica teologica” (dinamica), che rende assai difficile non solo la collaborazione, ma anche un dialogo significativo tra queste diverse prospettive dogmatiche.
b) La resistenza del ”modello Gasparri”: istituzione divina e consenso umano
Una cosa deve essere chiara e mi sembra urgente sottolineare: per integrare davvero libertà e autorità del matrimonio, oggi e domani dovremo saper formulare diversamente il “profilo oggettivo” del sacramento. La soluzione di Pietro Gasparri, che ha ormai 100 anni, risulta oggi del tutto inadeguata. Quello che oggi sembra il primo risultato raggiunto da AL – e che già modifica profondamente le prospettive pastorali ed ecclesiali – è la integrazione di un “profilo soggettivo” a correzione del “profilo oggettivo”, che resta però necessariamente quasi inalterato, almeno per ora. Ma, sulla base di questa “mediazione di transizione”, potremo e dovremo avviarci ad una “ridefinizione della oggettività del sacramento”. Solo questa ampia e profonda riforma del “diritto matrimoniale sostanziale” (ossia non solo di quello procedurale) potrà porre rimedio alla tensione che si creerà, da domani, tra soluzione pastorale (secondo il primato del tempo sullo spazio) e stato giuridico (che resta definito per ora secondo il primato dello spazio sul tempo).
Per comprendere meglio questo passaggio, qui possiamo rifarci alle analisi acute con cui un grande teologo tedesco, P. Huenermann, ha messo in chiaro il pesante condizionamento apologetico di una “dogmatica giuridica” di carattere antimoderno e difensivo. Riferendosi alla “seconda tappa” della costruzione novecentesca del “magistero matrimoniale”, Huenermann scrive:
“Il principio ermeneutico in base al quale nella Casti Connubii (1930) s’interpretano i testi sia dell’Antico sia del Nuovo Testamento recita: Dio ha creato il matrimonio come creatore dell’uomo e della donna e al tempo stesso lo ha pienamente regolato mediante leggi divine, annunciate da Dio attraverso la natura o Gesù Cristo. 32 Ne consegue un fondamentalismo teologico, plasmato da un pensiero giuridico, che presenta i fondamenti biblici in un modo grossolanamente semplificato.” (P. Huenermann, Una discussione lunga 100 anni, “Il Regno” [8/2015], 553-560, qui 556).
Questa operazione di “riduzione” della complessità del matrimonio è tipica di quello stile teologico apologetico e appare del tutto legata alla vicenda del XIX e XX secolo: mentre il medioevo poteva riconoscere che la “humana generatio ordinatur ad multa” (ossia si orienta in modo diverso alla natura, alla città e alla Chiesa), la logica di fine XIX e inizio XX secolo è costretta a polarizzare tutto su Dio e sull’uomo, perde le mediazioni. Dio istituisce compiutamente il sacramento in ogni suo aspetto, salvo richiedere il “consenso originario” di uomo e donna. Ed è questa polarizzazione a sfigurare, pesantemente, tanto la teologia quanto la antropologia. Dio e l’uomo ne escono quasi irriconoscibili!
c) Una questione decisiva: il ruolo della “forma oggettiva”
Questa “dogmatica giuridica” ha largamente influenzato la dogmatica teologica del XX secolo. Ma mentre i giuristi spesso si sono accontentati di “gestire i margini” delle questioni, i dogmatici hanno presto riconosciuto la debolezza sistematica di questa soluzione troppo drastica e quindi provvisoria. Per questo oggi, dopo AL, dobbiamo riconoscere di essere all’”inizio di un inizio”: oltre alla riforma della procedura di accertamento della nullità del vincolo – entrata in vigore dall’8 dicembre 2015 – e oltre alla riscoperta del “discernimento in foro interno”, bene impostata da AL, alla Chiesa occorre la riforma dei principi giuridici del foro esterno, ossia un nuovo diritto sostanziale sul matrimonio. Questo comporta, inevitabilmente, una ridefinizione del rapporto tra “oggettività del peccato” e “soggetto non imputabile”. Questa differenza non riguarda soltanto il Vangelo, ma anche la società. Fa bene, infatti, Massimo Nardello, nel citato articolo, a ricordare che accanto alla “accoglienza” dei soggetti, occorre preservare “oggettivamente” la santità della Chiesa. Ciò che, tuttavia, dovrebbe essere discusso è se le “seconde nozze” siano semplicemente una “oggettività negativa” oppure se vi sia una rilettura sociale e anche ecclesiale che possa modificarne la “necessaria correlazione all’adulterio”. Ciò che oggi deve essere teoricamente elaborato è precisamente la “differenza tra seconde nozze e adulterio”. Questo non è anzitutto frutto di una risposta ecclesiale, ma sorge dalla sana provocazione di “nuove forme di vita”, che la società aperta ha faticosamento elaborato e alle quali la Chiesa deve riservare un supplemento di riflessione e di comprensione. Non si può certo garantire la “santità della Chiesa” mediante una lettura fondamentalista della Scrittura e della tradizione! Il fondamentalismo produce sempre “santità equivoche”. La serietà del “vincolo”, infatti, non impedisce di variare la forma delle sanzioni rispetto al suo fallimento. Una rigidità di rapporto tra “valore” e “sanzione” è tipica di una lettura pre-moderna della legge e del suo valore pedagogico.
Se questo fosse il caso, si rischierebbe di identificare la santità della Chiesa con il principio dello “scandalo”, con esiti alquanto paradossali. Non è detto, infatti, che nella società e nella Chiesa di oggi, sia più scandaloso chi dopo la crisi del proprio matrimonio si sposa per la seconda volta, rispetto a chi, restando formalmente legato alla prima ed unica moglie, vive ripetute o strutturali esperienze di vita parallela. Il primato della seconda “soluzione” rispetto alla prima corrisponde ad una lettura della società e della dottrina di natura diversa, che solo una approssimazione troppo generica alle questioni può rischiare di assolutizzare. Le forme sociali dello scandalo fanno parte della “esperienza ecclesiale di comprensione della parola di Dio”. E il riconoscimento civile delle seconde nozze non può essere liquidato ecclesialmente come uno “scandalo”. Anzi, proprio questa riduzione dovrebbe risultare particolarmente scandalosa!
d) Premesse teologiche del lavoro giuridico
Perché questo “laborioso ripensamento” possa avere luogo, dobbiamo porre una serie di condizioni obiettive. Anzitutto dobbiamo riconoscere che il canonista interpreta le norme secondo una “dogmatica” diversa da quella teologica e pastorale. La dogmatica giuridica è rimasta ferma ai primi del 900, paralizzata dalla “sindrome da accerchiamento” con cui era stata concepita dal fine giurista Gasparri. Avendo spostato tutto il “peso” del matrimonio sulla istituzione divina e sul consenso originario dei coniugi, e avendo così immediatamente identificato contratto e sacramento, tale ricostruzione della tradizione aveva realizzato insieme un grande vantaggio e molti svantaggi. Il vantaggio era costituito dall’essere totalmente “autoreferenziale” – e dunque “non falsificabile” – e con un grande potenziale “falsificante” verso ogni variazione esterna del “sistema”. Se Dio ha stabilito tutte le caratteristiche essenziali del matrimonio, all’uomo e alla donna non resta altro che “acquisire” nel consenso originario ciò che eta stato predisposto previamente da parte di Dio. Ora, come è evidente, questa dogmatica giuridico-teologica di carattere accentuatamente apologetico predisponeva una rigidità disciplinare, che poteva essere resa “duttile” soltanto lavorando sull’unico elemento “non predeterminato”, ossia sul “consenso iniziale”. L’unico livello di “discernimento” poteva essere soltanto quello. E così è stato, in effetti: ogni “discernimento”, anche oggi, tende a concentrarsi “retrospettivamente” sul consenso iniziale, identificando “vizi” e “capi di nullità” necessariamente ed esclusivamente “ab ovo”. Ciò ha reso la Chiesa totalmente incapace di giudicare quanto accade, da almeno 50 anni, nella vita dei soggetti, non “a monte”, ma “a valle” del loro matrimonio. La impostazione difensiva ha finito per difendersi non tanto dal nemico “stato moderno”, quanto dalla stessa realtà vitale dei soggetti implicati.
e) Prospettive, non solo retrospettive
Una “prospettiva canonica” – e non solo una “retrospettiva” incline alla retrodatazione di ogni questione – sarà possibile nel diritto canonico solo nella misura in cui il modello giuridico con cui è pensato il matrimonio verrà aperto alla “storia dei soggetti” e alla loro “libera coscienza”. Ciò che AL fa, profeticamente, nel discernimento “a posteriori”, dovrà diventare criterio di ispirazione istituzionale e di struttura legale. Un uso “rozzo” del termine oggettivo è commisurato alla inesperienza categoriale con cui si trattano uomini e donne, come se fossero privi di libera coscienza e di storia di vita. Queste grandi acquisizioni della “storia” e della “coscienza”, che la Chiesa cattolica ha maturato ufficialmente solo dopo la metà del XX secolo, stanno cambiando profondamente le categorie che all’inizio di quel secolo avevano strutturato la “dogmatica giuridica” del sacramento del matrimonio. Essa oggi appare viziata da fondamentalismo biblico e da una apologetica sistematica incompatibile non solo con la esperienza di vita, ma con un vero annuncio del Vangelo. Non sono le condizioni di vita di oggi, ma è il Vangelo stesso a non sopportare più la dogmatica giuridica con cui il matrimonio è raffigurato, interpretato e tradotto in disciplina. Ogni traduzione efficace della tradizione dovrà minuziosamente riesaminare tutta questa materia e predisporre soluzioni ad ogni singola questione.
Per concludere, potremmo dire: non si tratta semplicemente di “moderare” soggettivamente una indiscussa evidenza “oggettiva”, bensì occorre ripensare accuratamente la formulazione stessa di questo “profilo oggettivo”, che richiede un profondo aggiornamento della sapienza giuridica della Chiesa, che dovrà lasciarsi illuminare non solo da una più fedele ermeneutica biblica e da un dialogo più fecondo con la dogmatica teologica, ma anche da un vero rapporto con la esperienza di uomini e donne. Oggi essa appare attardata di almeno un secolo rispetto alle questioni che ha la pretesa di risolvere, senza saper onorare la complessità che le caratterizza e imponendo criteri di discernimento che la alterano e la mistificano. Le profetiche parole di papa Francesco dicono con semplicità tutta la urgenza di questa conversione, che riguarda in primis il nostro linguaggio canonico:
“dobbiamo essere umili e realisti, per riconoscere che a volte il nostro modo di presentare le convinzioni cristiane e il modo di trattare le persone hanno aiutato a provocare ciò di cui oggi ci lamentiamo, per cui ci spetta una salutare reazione di autocritica” (AL, 36).
Di questa necessaria autocritica farà parte, nel nostro futuro, una accurata riforma del diritto matrimoniale sostanziale.
[…] Pubblicato il 23 maggio 2016 nel blog: Come se non […]
Caro Grillo, questa volta Lei ha superato se stesso. Complimenti!
Cito letteralmente, per non essere accusato di sbagliarmi: “Non si tratta semplicemente di “moderare” soggettivamente una indiscussa evidenza “oggettiva”, bensì occorre ripensare accuratamente la formulazione stessa di questo “profilo oggettivo”… in altre parole, la casistica gesuitica tanto deprecata dal pontefice gesuita viene fatta rientrare dalla finestra sotto forma di riformulazione dell’oggettività e di altr belle intenzioni velate di concetti vaghi (e sottolineo che tali sono) come “discernimento” e “misericordia”. Ma quale discernimento e misericordia ci possono essere se essi sono solo espedienti di autoassoluzione avallati dalla presenza ormai marginale di un “ministro” (ma sarà poi tale?) che non può dire nulla perchè non si tratterebbe di giudizio temerario nei confronti del fratello?… con il logico corollario: il dogma di fede si può discutere ed accordare alle esigenze del momento.
Domanda non capziosa, ma concreta: se domattina io mi reco dal sacerdote e dichiaro di non credere più all’autorità della Chiesa, posso evocare un discernimento per cui nelle mie condizioni soggettive tale oggettività possa concretizzarsi?
Altra domanda: ma lei vede così tante coppie risposate che felicemente attendono di discernere e di far pace, riconciliarsi con i fratelli…? Ho molti colleghi conviventi, separati, divorziati, plurifigli etc… che se ne strafregano altamente dei propri errori, normalmente imputati alla fedifraga moglie o al cretino marito, piuttosto che alla supponente suocera. Non c’è il rischio che AL venga fatta passare per un “liberi tutti di fare quel che volete”, considerato anche la debolezza ormai endemica del corpo sacerdotale?
Grazie per le franche risposte, more solito.
Certo.lei cita bene. Dobbiamo trovare una formulazione giuridica nuova, adeguata non solo alla esperienza dei soggetti, ma al Vangelo. Se identifichiamo il Vangelo con una società chiusa, restiamo fuori dalla vita dei soggetti. Io trovo tanta ansia di pace e di riconciliazione, ma non nelle forme classiche del confessionale…ma questo prima del 1500 non c’era. Perché mai dovrebbe essere eterno?
Le segnalo questo importante articolo, di un Suo collega. Certo la fonte non potrà essere passata per antipapale, Il Sismografo: http://ilsismografo.blogspot.it/2016/05/italia-il-dramma-di-papa-francesco.html
Guardi, non pretendo nessuna risposta personale. Ma magari ad una 14a Sua riflessione pubblica in merito vorrei esortarLa.
Grazie ancora.
Come? La fonte non è antipapale? Solo perché è stata portata a Roma da un “altro papa”? Il testo di questo intervento è molto infelice e si basa su una lettura della tradizione del tutto unilaterale e gravemente lacunosa. Scriverò un 14 commento, non direttamente su questo testo, ma sul rapporto tra matrimonio e sacramento. Che questo testo fraintende in modo fondamentalistico e massimalistico.
Un saluto cordiale
Spiacente dott. Grillo, ma quel testo che Le ho citato non è infelice. Semplicemente pone molte questioni cui la “meravigliosa complicatezza” di AL di fatto non risponde. Aspetto comunque di leggere la nuova puntata. Grazie.
Caro Andrea,
la ringrazio molto per i suoi commenti, che mi hanno aiutato in questo periodo in cui tutti stiamo cercando di assimilare Amoris Laetitia, un documento bello, profetico.
Fa piacere che sul web si trovi anche un discorso teologico serio, che va aldilà del giornalismo e della formazione catechistica.
Anche se non sono d’accordo con tutte le sue posizioni, per esempio quella del sacerdozio alle donne, la sua capacità di problematizzare e di mostrare nuove prospettive è senz’altro notevole.
In questo articolo mi sembra che lei tocchi il nodo della questione, ovvero la necessità di “ridire” le categorie stesse di ciò che è oggettivo, anche a livello canonico, ripensandole in una rilettura aperta al soffio dello Spirito e alla luce del Vangelo.
Uno degli spunti di uno degli articoli da lei citato in Settimana News è che le considerazioni di Amoris Laetitia su oggettivo-soggettivo ecc….riguardano non solo il matrimonio, ma anche altri ambiti. Occorrerà tempo, ma credo che la portata di questo documento sia davvero più vasta di quello che appaia a prima vista. Le considerazioni in materia morale del documento, infatti non riguardano affatto solo le coppie, regolari o irregolari che siano, ma hanno profonde implicazioni sulla vita spirituale di ogni credente e, se rettamente comprese non creano affatto confusione, ma una bella serenità. Certo occorre ponderare le scelte, per non distruggere un edificio senza averne prima costruito un altro che possa tenere, ma occorre anche una analisi franca che abbia il coraggio di distinguere tra la Tradizione con la T maiuscola e le tradizioni degli uomini, fatte passare per “diritto divino”.
” Nel suo costante discernimento, la Chiesa può anche giungere a riconoscere consuetudini proprie non direttamente legate al nucleo del Vangelo, alcune molto radicate nel corso della storia, che oggi ormai non sono più interpretate allo stesso modo e il cui messaggio non è di solito percepito adeguatamente. ” EG 43
andare verso questo nucleo è ciò che dobbiamo fare. Senza temere di ridiscutere alla radice la prassi dei sacramenti, con franchezza, anche la confessione, per esempio. E’, credo, in base all’intuizione della portata teologica del documento anche in altri ambiti che il Card Schonborn propose nella conferenza di presentazione “Dopo Amoris laetitiae ci sono tante situazioni su cui continuare a discutere, una è un rinnovamento della nostra prassi sacramentale nell’insieme. Cinquant’anni dopo il Vaticano II sarebbe bene ripensare a ciò che vuol dire una vita sacramentale, non solo per i divorziati risposati ma per tutti”. Molto logica la sua osservazione, lui l’ha capito subito che AL apre molte prospettive e che questo “ripensamento teologico” ne è la logica conseguenza.
La teologia è una materia complessa, interpretare correttamente certe categorie come “diritto divino”, “oggettivo” ecc…è difficile anche per chi ha fatto gli studi teologici! L’autentica teologia offre molti più spazi di quelli che noi pensiamo, ma occorre umiltà. Chi nutre la propria vita di fede con i commenti dei giornalisti e dei vaticanisti, assomiglia a chi va a chiedere la diagnosi della propria malattia a un infermiere. Nessuno, spesso nemmeno un collega per deontologia professionale, ma tanto meno un non specialista, si azzarda a contraddire la diagnosi di un medico. Occorre fede nel magistero, rispetto per il lavoro del teologo, anche il giornalista e il semplice cristiano che pubblica le sue riflessioni hanno qualcosa da dire, anche qui però, come nelle diverse verità di fede, c’è una gerarchia.
Grazie
per errore ho lasciato la parte finale di questa citazione che ho fatto sopra, quel “non abbiamo paura di rivederle!”:
” Nel suo costante discernimento, la Chiesa può anche giungere a riconoscere consuetudini proprie non direttamente legate al nucleo del Vangelo, alcune molto radicate nel corso della storia, che oggi ormai non sono più interpretate allo stesso modo e il cui messaggio non è di solito percepito adeguatamente. Possono essere belle, però ora non rendono lo stesso servizio in ordine alla trasmissione del Vangelo. Non abbiamo paura di rivederle. Allo stesso modo, ci sono norme o precetti ecclesiali che possono essere stati molto efficaci in altre epoche, ma che non hanno più la stessa forza educativa come canali di vita.San Tommaso d’Aquino sottolineava che i precetti dati da Cristo e dagli Apostoli al popolo di Dio «sono pochissimi».[47] Citando sant’Agostino, notava che i precetti aggiunti dalla Chiesa posteriormente si devono esigere con moderazione «per non appesantire la vita ai fedeli» e trasformare la nostra religione in una schiavitù, quando «la misericordia di Dio ha voluto che fosse libera».[48] Questo avvertimento, fatto diversi secoli fa, ha una tremenda attualità. Dovrebbe essere uno dei criteri da considerare al momento di pensare una riforma della Chiesa e della sua predicazione che permetta realmente di giungere a tutti. “Eg 43
grazie