Andrea Ponso sulla “carne tenera” di Francesco


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Andrea Ponso ha scritto queste ricche osservazioni sulle caratteristiche della “lingua di Francesco”.  Penso che la attenzione alla “forma linguistica” di una Chiesa in uscita richieda antenne lunghe e frequenze ampie. Come quelle di Andrea. 

LA “CARNE TENERA” DEL SIGNIFICANTE. 

Il discorso di Papa Francesco a Firenze

(di Andrea Ponso)

 

Ciò che immediatamente colpisce nella retorica del discorso di Papa Francesco di pochi giorni fa a Firenze è, a mio avviso, come già è stato detto, la capacità di tenere insieme “alto” e “basso”, rigore e ironia, una tessitura linguistica coerente e sbalzi imprevedibili e deflagranti. Interessante sarebbe però provare a vedere, almeno con qualche cenno qui, i motivi profondi di una tale efficacia.

Naturalmente, non dobbiamo dimenticare che siamo in un discorso pubblico e, quindi, in un regime di oralità secondaria (cioè non in un contesto solamente orale). Questo, sicuramente, rende il discorso più vivo e incisivo, anche se parte dallo scritto. In un regime di oralità secondaria l’importanza dei significanti, più che dei significati, è centrale: essi permettono un’azione e una capacità di abitare il tempo e lo spazio del discorso in maniera comunitaria, sensibile all’eco e alla risposta e, nello stesso tempo, rischiosamente aperta all’evento di parola che ac-cade nell’immediato. In poche parole è come se la divisione tra significati e significanti, tra soggetto e oggetto del discorso, tra singolarità e comunità, non fosse ancora avvenuta concettualmente, in modo che queste coppie altrimenti dualistiche lavorassero sinergicamente per essere una il motore dell’altra, eliminando la rigidità di un modello già dato di comunità, di soggetto e di relazionalità; per questo troviamo, come ha sottolineato Andrea Grillo, continui cambi di soggetto, funzionali a quella che potremmo chiamare “sinodalità linguistica”. Come ha scritto recentemente Marcello La Matina,

“Mentalismo e semantica privano la parola della sua vita prosodica, la quale può essere colta solo nel contesto di una enunciazione pubblica. Sottratti questi aspetti liturgici, l’aspetto pubblico della parola – quale permane nell’Occidente loico delle universitates – è quello della disputatio, che è relazione paratattica fra enunciati assertori e domande, e non già relazione tra un interrogante e un rispondente. Dal momento che, in questo gioco linguistico, l’oggettività di una affermazione richiede, per compiersi, l’atetèsi del soggetto, dell’io dell’enunciazione, lo spessore dialogico è apparente. Solo l’enunciato è oggettivabile, quando si badi a sopprimere da esso le tracce dell’enunciazione, come i deittici, i pronomi; in una parola, quando dal linguaggio si sradichi la persona. Con la persona viene anche via l’aspetto performativo della parola, l’azione che io esercita su tu, e quella che entrambi rivolgono all’esso/egli o viceversa”. (Marcello La Matina, Note sul suono. Filosofia dei linguaggi e forme di vita)

E mi pare stia proprio in questo rischio necessario di non elidere la “carne tenera” della parola e delle persone uno degli esiti più alti della pratica discorsiva di Papa Francesco, del tutto coerente, del resto, con la sua teologia, con il suo pensiero e con la sua azione. Un indicatore forte, tra gli altri, di questa capacità di rischiare davvero il dialogo e non solamente di simularlo, rimanendo difensivamente nascosti dietro alle astrazioni e alle regole (pericolo “gnostico”) e alla forza troppo sicura di se stessa della volontà (pericolo pelagiano) è sottolineato dallo stesso Pontefice quando descrive il dialogo anche come un “arrabbiarsi” e una accettazione relazionale del “conflitto”. Ma la novità più forte è che, in questa modalità significante aperta, in quella che abbiamo chiamato “sinodalità linguistica”, non rimane chiusa e inscalfibile dietro all’autorità o al concetto nemmeno la figura stessa di chi parla: anzi, è proprio la voce che prende la parola che, per prima, è “in uscita” e si ex-pone al rischio e al farsi continuo della propria identità e consistenza nella relazione/confronto con l’alterità.

Un altro esempio è fornito dalla vertiginosa capacità, pur nella sua apparente forma piana, di cortocircuitare l’alto e il basso, intrecciando teologia, bibbia e richiami per niente “colti” ma che, all’interno della dinamica del discorso, assumono una forza dirompente che, letteralmente, com-muove. Detto qui solo come accenno, se dovessimo istituire un confronto con la letteratura italiana, il padre tutelare sarebbe sicuramente Dante e non certo Petrarca: anche linguisticamente, infatti, il primo ha saputo aprire il codice letterario italiano in maniera inaudita, toccando con la sua lingua i cieli e il profondo del mondo infero, la materialità opaca e la trascendenza apofatica ma non per questo meno esperibile di quel “bollore di prepotenze che è la realtà” (A. Zanzotto). Una esperienza, quella dantesca, che è stata poi richiusa e addomesticata attraverso la codificazione petrarchesca e bembesca, immettendo nel discorso letterario quote di realtà sempre minori. Mi sembra una metafora, questa, che potrebbe essere applicata, per molti aspetti, anche alla chiesa e alla riflessione teologica italiana.

Tutto questo ci porta a riscoprire linguisticamente qualcosa che è fondamentale anche dal punto di vista teologico, e che già i Padri avevano intuito a fondo: ciò che mancava prima della venuta di Cristo e della sua incarnazione non erano tanto i significati ma i significanti, la carne di nuovo viva della parola che si fa azione, tempo, relazione e storia. Il Significante che mancava era Cristo che, in tutta la sua vita e fino alla croce ha sempre avuto la capacità di anteporre la carne al segno, senza tuttavia eliminare la necessità dello stesso: il corpo è sopra al segno di morte della croce; vi è inchiodato e tuttavia libero e, come lo Spirito e la sua libertà, potrà essere toccato e gustato ma non trattenuto: noli me tangere.

 

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