Ascensione, Pasqua e Pentecoste: una conversione dello sguardo


I testi della festa dell’Ascensione nel ciclo festivo B devono essere letti nel loro rapporto sia tra loro, al loro “interno”, sia verso l’“esterno”, in relazione a ciò che è stato proclamato nel ciclo feriale lungo tutta la scorsa settimana, dove la liturgia ci ha offerto la versione che Giovanni dà dell’evento.

Iniziamo dunque dalle tre versioni dell’evento che leggiamo rispettivamente in At 1, in Ef 4 e in Mc 16. In tutti e tre i racconti si riferisce di un “essere elevato”, di un “ascendere e discendere” e di un “essere assunto in cielo” di Gesù. Le tre testimonianze vengono dall’inizio del libro degli Atti degli Apostoli, dal cuore della lettera agli Efesini di Paolo e dalla fine del vangelo di Marco.

In tutti e tre i testi, tuttavia, non si parla di “ascensione” nel senso che noi intendiamo: non è un evento che abbia senso se non in rapporto ad una esperienza più complessa e più ricca. Certo, l’evento, in quanto tale, ha assunto una sua autonomia per il fatto di essere stato inserito nelle più antiche professioni di fede con “ascendit ad cielos/in cielum”, “salì ai cieli/al cielo”, il verbo ha profondamente segnato la elaborazione del termine astratto “ascensione”. D’altra parte la celebrazione liturgica inizia con una antifona che sta sotto il segno di una “conversione dello sguardo”: “Uomini di Galilea? Perché state a guardare il cielo? Come lo avete visto salire, così il Signore verrà”. Questo testo, che è tratto dalla prima lettura, diventa quasi la “cifra” di una interpretazione esigente, che collega l’ascendere al discendere. Cerchiamo di comprenderla meglio, attraversando prima i testi della festa e poi confrontandoli con i testi delle celebrazioni feriali della penultima settimana di Pasqua, che recano i testi con cui il Vangelo di Gv tocca e tratta il medesimo mistero.

La prima parola decisiva, che leggiamo sta proprio nel testo di At 1: la nube che copre alla vista Gesù è il suo passare nell’ambito del divino. Ma questo non diventa un incanto mistico, ma il principio di una trasformazione in chiesa dei suoi discepoli, che apre lo spazio per una presenza nuova del Signore, col dono dello Spirito, in attesa della sua venuta definitiva. La chiesa può nascere da questa presenza invisibile, da questa partenza che non lascia soli: se Gesù non appare più è perché la sua azione diventa universale.

Anche Paolo, in Ef 4, riprende questa medesima lettura, sebbene con altre parole. Anche nel suo testo il “salire” è correlato con il “discendere”. Attraverso la citazione “a senso” del salmo 68, Paolo dice che l’ascendere del Signore implica la discesa di molti “doni”: lo spazio della differenziazione carismatica della Chiesa è il risultato di incarnazione e risurrezione.

Infine il testo di Mc, in sole due righe, opera sinteticamente una lettura di grande forza: non solo ricorda il fatto della separazione verso l’altro, per sedere alla destra del Padre, ma la “cooperazione del Signore” (espressa con l’ablativo assoluto Domino cooperante) nei detti e fatti della Chiesa. La distanza della vista diventa prossimità di parola e di gesto. L’eco della esperienza dei “due di Emmaus” è la guida migliore per intendere questo testo.

Le due tradizioni che restano “esterne” a questa sintesi non sono meno significative. Da un lato Gv usa il riferimento al “ritorno al Padre” senza identificare un tempo di “separazione” successivo alla Pasqua. Per Gv è la Risurrezione ad essere, contemporaneamente, anche Ascensione e anche Pentecoste. Il “rimanere in lui” dei suoi discepoli consiste nella fede e nella consolazione del Paraclito. In Gv il non vedere più e il vedere di nuovo sono riferiti al morte e risurrezione piuttosto che a Ascensione e Parusia. Così nella Pasqua si compie tutto ciò che in Luca si svolge in 50 giorni.

Ma non basta: ancora diversa appare la prospettiva del Vangelo secondo Mt, unico dei Vangeli a non avere alcun rapporto con il congedo di Gesù. Il Risorto non si congeda: resta con i suoi “per tutti i giorni, fino alla fine del mondo”. In fondo, tutta la tradizione sul Mistero Pasquale elabora questa condizione intermedia, di una presenza che è assenza e di una invisibilità che è riconoscimento. I 4 vangeli sono la testimonianza più antica di una pluralità di stili ecclesiali e di forme dell’annuncio alle quali il discepolo torna sempre di nuovo, nel variare dei tre cicli di letture, nella continuità del rito eucaristico, che unisce visibile ad invisibile, presenza e assenza, memoria e azione, parola e silenzio. Non per guardare il cielo con nostalgia, ma per scoprire i segni del Risorto nella storia, in attesa della sua venuta.

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