“Autocompiacimento”: due definizioni di atto omosessuale e partecipazione liturgica
Quando ho letto, alcuni giorni fa, il §. 7 della Lettera della Congregazione per la Dottrina della Fede Homosexualitatis problema (1986), sono rimasto colpito da molte cose, ma soprattutto dal modo icastico e diretto con cui si conclude il penultimo paragrafo di quel capoverso, che suona così:
L’attività omosessuale non esprime un’unione complementare, capace di trasmettere la vita, e pertanto contraddice la vocazione a un’esistenza vissuta in quella forma di auto-donazione che, secondo il Vangelo, è l’essenza stessa della vita cristiana. Ciò non significa che le persone omosessuali non siano spesso generose e non facciano dono di se stesse, ma quando si impegnano in un’attività omosessuale esse rafforzano al loro interno una inclinazione sessuale disordinata, per se stessa caratterizzata dall’autocompiacimento.
Qui il documento traduce le categorie classiche della “inclinazione sessuale disordinata” e lo fa con un gesto rapido, forte, diretto, che non lascia scampo. Con uno stile teologico di alta scuola, in una sola parola vuole dire il senso di una intera realtà. Questo è tipico della grande teologia: la “reductio ad unum”. Tutti hanno imparato da Aristotele a sussumere tutta intera una categoria di fenomeni sotto un solo genere. Così si afferma che la condizione omosessuale (orientamento e azione omosessuale) sarebbe “di per sé autocompiacimento”, ossia mancanza di alterità, immanenza, incapacità di trascendenza, chiusura al prossimo e a Dio. Quante cose in una sola parola!
Una esperienza simile mi era già capitata leggendo un altro testo, non magisteriale, ma teologico, a firma di H. U Von Balthasar. Nel famosissimo “Solo l’amore è credibile” il teologo costruisce una infinita catena di genealogie nelle quali sono collocati, con un solo gesto, centinaia di autori diversi. Si resta ammirati da tutta questa organizzazione della storia del pensiero teologico in sole due grandi categorie: modello cosmologico e modello antropologico, con infinite sfumature e dialettiche. Ma a un certo punto, in una noticina, si trova una espressione molto simile a quella della Lettera citata sopra:
“Nel movimento liturgico si riflette paradossalmente qualche cosa di queste concezioni (da Kant a Marx a Ragaz), perché quella maggior partecipazione dei fedeli alla liturgia, che giustamente si vorrebbe realizzare, sotto sotto si tramuta in un’autoesperienza e in un autogodimento della coscienza religiosa comunitaria. Persino nell’architettura troviamo i riflessi di quelle concezioni”1.
Non vi è dubbio che qui Balthasar, per collocare il movimento liturgico nell’ambito della “riduzione antropologica”, debba fare un salto mortale tanto spettacolare quanto rischioso. La buona teologia è sempre così: molto bella, quasi incantevole, ma molto rischiosa e spesso azzardata.
Così sia la accusa di “autocompiacimento” rivolta all’azione omosessuale, sia quella di “autogodimento” rivolta alla azione liturgica partecipata suonano singolarmente simili. Che cosa le accomuna? La eventualità di interpretare una forma di vita o una forma di partecipazione come “negazione autoreferenziale della apertura a Dio”. La messa in guardia contro la “deriva soggettivistica” è un grande classico della teologia del XX secolo, con tutte le sue ragioni. Nel caso specifico ho ragione di dubitare che la definizione del movimento liturgico e la definizione dell’ atto omosessuale riescano a cogliere nel segno. Che il movimento liturgico sia, “sotto sotto”, non un passaggio dello spirito, ma un inquinamento dello spirito, è un piccolo cono d’ombra antimodernistico nello splendore della lode alla “credibilità dell’amore”. Ma più grave è la riduzione dell’amore omosessuale ad autocompiacimento. Ogni amore è sempre anche “amore di sé”. Ma che l’amore omosessuale non possa aprirsi all’altro, non viva alterità e non sia capace di trascendenza, questa mi pare una “definizione apodittica” elaborata solo a priori. Non importa da dove sia venuta e di quanta autorità si sia dotata: se una teologia generica e astratta pretende di ridurre le forme di vita ad una definizione indiscutibile, sotto la forma di una grande sintesi propone in realtà una lettura teologicamente troppo fragile e culturalmente troppo marginale. Ad aggravare le cose vi è il fatto che la “definizione” che troviamo in Von Balthasar è comunque formulata con cautela. Mentre la definizione magisteriale non lascia scampo: le azioni omosessuali sarebbe “di per sé”, ossia “oggettivamente”, ossia “intrinsecamente”, chiuse in se stesse. Questa condanna definitiva avviene però in contumacia. Dunque c’è ancora margine per un ricorso e per onorare non solo una ragione astratta che sistema tutto, ma anche una esperienza concreta e aperta alle sorprese.
Autocompiacimento: il rispetto delle persone, che tutti affermano con grande foga, chiederebbe che i concetti portanti delle lettere scritte a Vescovi con autorità non fossero formulati solo dalla scrivania, a nome di una Chiesa che così facendo si mostra purtroppo “inesperta in umanità”. Perché parla di ciò che non conosce. Forse per un certo “autocompiacimento”.
1H.U.von Balthasar, Solo l’amore è credibile, Roma, Borla, 1991, p.46, nota 15.
Il problema è uscire dal razionalismo e dalle sue dinamiche.
https://gpcentofanti.altervista.org/spaccatura-o-traboccamento/
Gent.mo Grillo,
lei confonde il rispetto dovuto alle persone (che non può essere messo in discussione) con un giudizio motivato sui loro atti. Che la Chiesa può e deve dare.
Personalmente credo che a garantire i diritti di chi si riconosce nella galassia LGBTQA+ bastino e avanzino le tutele giuridiche già ampiamente offerte dallo Stato con la “Costituzione più bella e inclusiva del mondo” (come amano affermare i pensatori a Lei cari).
Il resto, mi permetta, è solo “pornoteologia” (si rilegga la definizione di Cornelio Fabro) camuffata da vuota e ammiccante retorica. Liberissimo di praticarla chi vuole, per fortuna c’è (an cora?) libertà piena di parola. Ma abbia almeno il coraggio di non definirsi più “cattolico”. “Universale” non è sinonimo di qualunquismo morale, almeno finché riusciamo a ragionare ancora con la mente e a discernere nella fede.
Con i migliori consueti auguri.
MB
Un prete salesiano, ora anziano, è passato dalla cura di una comunità per tossici ad una per malati di AIDS… ne ha viste di tutte sia nel mondo della tossicodipendenza che in quello della omosessualità, molti purtroppo sono deceduti e mi raccontava di essere rimasto ammirato dall’affetto, la dedizione e il sacrificio del “compagno” nei confronti del malato terminale … una manifestazione di amore per nulla autocompiacente. La vita reale è fatta di mille sfumature e spesso lontana da giudizi moraleggianti dettati da studi composti alla scrivania.
La realtà della vita offre mille sorprese da cui lasciarci meravigliare.
don Luciano Cantini
La dedizione e l’affetto per una persona cara in un momento di sofferenza sono segno di caritas cristiana e non sono messe in discussione. Altra cosa però è pretendere che tali nobili sentimenti possano essere interpretati come strumenti giustificativi di scelte morali non in linea con la fede cristiana. E dico questo al netto dell’umiltà che ciascuno di noi, come peccatore, deve avere nei confronti del fratello e delle sue scelte di vita. Ma la Chiesa (se ancora vuole avere una C maiuscola) deve essere in grado di dire NO all’ammissibilità di certe relazioni, se vuole manifestare un minimo di coerenza. Che non è rigidità pelagiana, ma rispetto per una morale che ha fatto della vita il centro propulsore dell’essere cristiano. Dimostratemi come tra due omosessuali nasca nuova vita (l’adozione NON vale) e poi potrete di nuovo straparlare contro la crisi delle nascite…
C’è un mondo di sconfinate praterie democratiche (o presunte tali) per chi vuole accampare certi diritti. La Chiesa faccia il suo dovere di madre premurosa, ma anche giusta. Saluti.
Caro professore, lei resta “aperto alle sorprese”, e dietro questa formula vedo l’aspettativa, in parte notevole già realizzata, di una chiesa cattolica che accetta e anzi onora l’omosessualità e vario altro.
Credo che il tema della sessualità offra un buon esempio degli errori passati e dei rischi futuri della dottrina della Chiesa, errori di principio e di fatto, a causa di comportamenti non codificati ma molto, molto applicati in pratica. Il “peccato” alla fine si riduceva, nella Chiesa fino a non molto tempo fa e dopo circa due secoli credo di insistenza su questo rigido puritanesimo (da quando la Rivoluzione francese aveva portato il libero amore anche al popolo), all’atto sessuale fuori dal matrimonio e varianti varie. Persino nel matrimonio era peccato, se non indirizzato alla procreazione. Il “mondo”, sentina di tutti i mali, era dominato da questo “peccato” e quindi da tenere a molta distanza. Questo veniva insegnato con insistenza nei seminari, da preti ispirati, o complessati. Poi i giovani maschi (non i seminaristi, in genere) andavano a fare esperienza nelle case di tolleranza, e si confessavano, se cattolici praticanti.
La realtà della vita, e intendo della vita onesta se non santa, non è questa.
I rischi futuri sono di fare esattamente il contrario. Tutto proibito prima, tutto concesso dopo, concesso nel senso di tutto accettato.
Il “chi sono io per giudicare” è saggio e giusto fino a un certo punto. Poi diventa il suicidio di un’istituzione millenaria. Senza il male, una realtà evidente della vita, non c’è Dio, che del male è la negazione, e non c’è Chiesa. Non credo che una qualche teologia per quanto progressista o avventurista arrivi a sostenere l’inesistenza del male: significherebbe, per il teologo che la formula, dire che non ha mai sentito parlare di Prima Guerra, di Seconda Guerra mondiale, di infinite altre guerre, di forni crematori, di gulag, e di tanto altro ancora.
Quanto all’omosessualità, ve ne sono di vari tipi. A volte pienamente giustificati dalla vita e su cui non c’è nulla da dire. Altre volte del tutto inaccettabili, e anche esteticamente sgradevoli. I rapporti etero, anche quando “abnormi”, hanno una lettura in genere più semplice.
Infine aggiungo un’osservazione, per meglio capire il pantano in cui si trova la Chiesa con i casi di pedofilia. In molte curie vescovili ha sempre sollevato molto più allarme il sospetto per un parroco che forse curava troppo alcune parrocchiane rispetto alle voci su un altro prete che forse allungava le mani su ragazzini , o su adulti maschi. Motivo: nel primo caso, molto meno grave sul piano morale e grave solo su quello disciplinare interno alla Chiesa, poteva esserci una gravidanza e un bambino cui provvedere, prova evidente del “peccato” tanto più se aveva i capelli rossi come il parroco in una famiglia di tutti capelli scuri; nel secondo caso no.