BARTH VERSUS KOCH: SEGNI DEI TEMPI COME NAZISMO E MODERNISMO ?


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In una sequenza vorticosa, il cardinale Koch rilascia una intervista al Tagespost in cui equipara i testi del Sinodo tedesco agli eccessi del nazismo. Il Presidente della Conferenza Episcopale Tedesca chiede pubbliche scuse e il cardinale prova a rettificare, ma complica ancora di più la cosa.
Nel testo di rettifica il cardinale ammette di non aver sufficientemente valutato la suscettibilità dei tedeschi quando si parla di nazismo. In realtà, la questione non riguarda affatto i tedeschi, bensì i due svizzeri in gioco: da un lato Karl Barth, che è l’estensore di quelle tesi di Barmen (1934) a cui pretende di riferirsi Koch, e dall’altro lo stesso Koch, che mostra un grave problema nell’intendere il senso e il contesto di quelle dichiarazioni.
Come diceva Barth nel 1933-34, anche in questo caso non ci interessa la questione di attualità, ma la questione di fondo: ossia in che senso sia legittimo o meno ammettere altre fonti della rivelazione oltre alla Scrittura (Barth) e alla Tradizione (Koch).
Ma dobbiamo chiederci in quale contesto Barth poneva questa domanda, del tutto legittima. Il contesto era quello di uno stato totalitario, che pretendeva di imporre alla Chiesa protestante un sistema di Fuehrer a livello regionale e a livello centrale. Barth reagiva duramente all’idea che fosse la politica a strutturare la Chiesa.
Il modo con cui Koch legge le affermazioni di Barth è collocato in tutt’altro contesto, a meno che non si voglia avvalorare quella lettura semplicistica che legge il mondo attuale, anche tedesco, come la “dittatura del pensiero unico” che imporrebbe anche alla Chiesa priorità e evidenze nuove.
In realtà, ciò che il Sinodo tedesco sta facendo è precisamente un lavoro sulla interpretazione della Parola di Dio e della Tradizione. Questo è lo svarione contenuto nel giudizio di Koch che lo conduce inevitabilmente, a differenza del Barth di quasi cento anni prima, a conclusioni integralistiche e fondamentalistiche.
Se dovessimo giudicare delle donne solo sulla base di alcune affermazioni di Paolo e non anche sulla base dello sviluppo culturale degli ultimi duecento anni saremmo teologi disperati. Se dovessimo giudicare delle persone omosessuali sulla base di alcuni versetti dell’Antico Testamento e di pochi riferimenti del Nuovo Testamento saremmo teologi presuntuosi. Se poi dovessimo anche soltanto utilizzare due esempi che ci fornisce lo stesso Koch in cui si giudica il pensiero tedesco sulla base della vecchia triade vedere-giudicare-agire, penseremmo di giudicare un fenomeno del 2022 con alcune categorie stantie degli anni Cinquanta. Senza accorgersene, Koch cade nell’errore che vuole denunciare contro il Sinodo tedesco: utilizza rappresentazioni che nulla hanno a che fare con la rivelazione per giudicare la legittimità dell’azione sinodale.
Un’ultima perla sta nella denuncia di una generazione teologica che pretende di fare teologia partendo dalla libertà. Sono almeno duecento anni che la migliore teologia europea prende sul serio proprio questa partenza e non la liquida, come pretenderebbe Koch, ad un semplice punto di arrivo.
Leggere Barth semplicemente come un antimodernista, tentazione ben presente nella teologia cattolica, è un modo di fraintenderlo definitivamente. Come ha scritto il migliore interprete di Barth, E. Juengel, proprio il teologo che sembra escludere l’esperienza dalla sua teologia, è quello che ci fa fare l’esperienza teologica più intensa. Il problema, dunque, non è la suscettibilità tedesca, ma la fedeltà degli svizzeri ai loro pensatori del passato. In fondo qui il Sinodo è solo il pretesto per mostrare che cosa è una cattiva teologia di fronte alla “esistenza teologica di grandi predecessori”.

mihi dictanti dono Daniela perscripsit citius

 

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