C’era una volta il manicomio… (1.a parte)


… poi, con la ‘rivoluzione culturale’ dello psichiatra Franco Basaglia (1924-80) con la moglie Franca Ongaro (1928-2005) in opposizione ai canoni della psichiatria tradizionale ancora solida in Italia, scattò la legge quadro 180/1978 che ne impose la chiusura, istituendo i servizi di igiene mentale per la cura ambulatoriale dei malati di mente.
Basaglia aveva anticipato la ‘propria’ rivoluzione nell’esperienza al manicomio di Gorizia dal 1962, continuata a Trieste dal 1971. Da lì partì il grido ‘liberi tutti’ (ripreso nel bel libro Liberi tutti. Manicomi e psichiatri in Italia: una storia del Novecento del 2011, di Valeria Babini, che ricostruisce la storia, le ragioni e i modi della loro soppressione).
I manicomi o ospedali psichiatrici, luoghi di terribile segregazione a vita dei malati di mente, svolsero a lungo in Italia, provincia per provincia, il ruolo sociale determinate di definitiva separazione del mondo di coloro che si ritenevano sani da quello dei pazzi ritenuti irrecuperabili.
Con la loro soppressione, la lunga storia manicomiale non può però dirsi del tutto conclusa, anche perché ha lasciato tracce fisiche rilevanti: cittadelle ancora isolate o frammenti urbani, inglobati in città, che compongono un imponente e diffuso patrimonio architettonico e paesaggistico di qualità, ma per lo più in uno stato di abbandono che lo rende pericoloso anziché risorsa da conservare destinandola a usi adeguati e socialmente utili.
Con vari colleghi universitari, me ne sono occupata qualche anno fa in un’indagine, con finanziamento MIUR, estesa a tutto il territorio nazionale. L’esito dei nostri studi si è concretizzato in un volume che propone un quadro, incompleto ma molto esteso, sullo stato di fatto dei molti ospedali psichiatrici in territorio italiano: C. Ajroldi, M. A. Crippa, G. Doti, L. Guardamagna, C. Lenza, M. L. Neri (a cura di), I complessi manicomiali in Italia tra Otto e Novecento, Milano 2013. Mi stimola a riprendere l’argomento la recentissima pubblicazione, su un caso che gli autori del volume sopra citato non avevano potuto comprendere nella loro indagine, di E. Sorbo, La memoria dell’oblio. Ex Ospedale psichiatrico di Rovigo, Venezia 2017.
L’interrogativo che propongo riguarda il senso di questi luoghi per noi oggi, cui consegue il problema della loro conservazione. L’opposizione tra conservazione e distruzione, tra memoria e oblio ha per essi drammaticità del tutto particolare. Per comprenderla, almeno nei suoi aspetti più generali, è necessario richiamare, sia pure in sintesi, la storia della moderna impresa manicomiale.
Quelli che oggi chiamiamo in Italia ex OPP (Ospedali Psichiatrici provinciali) hanno avuto origine in tutta l’Europa nel secolo XIX; furono esito del dibattito di matrice illuminista, sulla necessaria distinzione dei malati da curare secondo specifiche tipologie mediche in rapporto alle diverse malattie, quindi in contesti fisici differenti.
In questo dibattito rientrò la decisione di superare il binomio povertà/malattia che fino ad allora aveva portato a raccogliere insieme, malati, poveri, orfani, vagabondi, incurabili, folli, negli stessi istituti e senza distinzione.
Ebbero così origine gli ospedali moderni organizzati in cliniche e, appunto, i manicomi detti anche ospedali psichiatrici, perché luoghi per la cura della psiche umana.
Schematizzando, furono due le tendenze europee con sviluppi specifici nell’Ottocento. Da una parte, dalle teorie dello psichiatra francese Philippe Pinel (1745-1826) emerse una linea di cura per i malati mentali che implicava anche architetture per il loro ricovero, o asilo, in villaggi chiusi, distinti rispetto alle città e in stretta relazione con la natura e il lavoro nei campi, che si ipotizzo essere benefico.
Dall’altra, opponendosi al manicomio entro perimetro chiuso, in Inghilterra John Connoly (1794-1866) propose, in asili detti no restraints – per il rifiuto alle strumentazioni mechanical restraints come catene o altri elementi contenitivi -architetture open door cioè aperte sulla campagna circostante, da cui venne il tipo small-village (manicomio-villaggio) composto da padiglioni separati, immersi nel verde e collegati a vaste aree agricole.
Nell’Italia postunitaria, nel 1865, viene promulgata la legge che assegnò alle Provincie l’obbligo di mantenere ‘i mentecatti poveri’; la legge successiva del 1904 determinò la reclusione coatta dei malati mentali che aprì, in ogni provincia, una lunga stagione di adattamenti di vecchi edifici (come conventi, monasteri, ex ospedali) e di costruzione di nuove architetture manicomiali, chiuse o del tipo no restaints, concepite per rispondere anche alle preoccupazioni igieniste allora molto sentite anche per gli antichi centri urbani.
Nel frattempo, col diffondersi di revisioni radicali del concetto di malattia mentale e dei modi della sua cura, emersero riflessioni coinvolgenti l’intera società. A partire dal libro del 1961 di Ervin Grossmann, Asylums: Essays on the Social Situation of Mental Patients and Other Inmates, emerse il ‘vero’ senso, fino ad allora celato sotto la nozione di cura, degli ospedali psichiatrici come luoghi di isolamento e confino della malattia dalla società. Si evidenziò cioè il loro carattere di asili ai quali era stato affidato il compito di segregare, chi aveva perso la capacità della ragione (di difficilissimo, se non impossibile recupero, si riteneva), dalla società mentalmente sana. In concreto, ci si rese conto che l’opposizione tra malati e sani non si fondava, in essi, su reciproca complementarietà, ma sulla negazione dei secondi da parte dei primi, cancellazione dal proprio mondo tramite costruzione di un mondo parallelo, reso non visibile quotidianamente.
Il libro di Grossmann venne tradotto in Italia da Franca Ongaro e Franco Basaglia, protagonisti della riforma psichiatrica italiana a partire dal movimento di psichiatria democratica. La legge n. 180, del 13 maggio 1978, portò all’istituzione di servizi di igiene mentale pubblici e all’abolizione degli ospedali psichiatrici, decisione quest’ultima caratterizzante la riforma italiana, non quella delle altre nazioni occidentali. L’attuazione della legge, lenta e localmente differenziata, ebbe fase significativa nel 1994, quando lo stato impose alle regioni la chiusura degli OPP entro l’anno. Da allora, a parte pochissimi casi esemplari di importanti recuperi, il patrimonio degli OPP è in gravissimo stato di degrado. (segue 2.a parte)

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