Cinque anni di grazia e di libertà
Che cosa ricorderanno i nostri nipoti, tra 100 anni, di questi ultimi 5 anni di vita ecclesiale? A 50 anni dal Concilio Vaticano II, la elezione che il Conclave assumeva il 13 marzo 2013 riportava a Roma, con potenza e con profezia, lo spirito del Concilio. Fin dalle prime parole, e con una coerenza sorprendente lungo questi 5 anni, papa Francesco ha riacceso speranze, liberato energie, riscattato storie, superato blocchi, riaperto dialoghi, spiazzato inerzie di comodo e riscoperto primati dimenticati.
I primi bilanci di questo lustro sono inevitabilmente differenziati. Le considerazioni politiche o ecclesiali, etiche o strutturali, giuridiche o spettacolari cercano e trovano cose necessariamente diverse. Una parola forte deve essere detta a proposito della “teologia di Francesco”: le tre “i” con cui un anno fa si era rivolto agli Scrittori della Civiltà Cattolica suonano da allora come la cifra di una forza e di una originalità grande: inquietudine, incompletezza e immaginazione sono diventate “normative” per fare teologia cattolica. Anche in questo passaggio si può notare, con meraviglia e con scandalo, la nuova centralità di una periferia spesso emarginata e trascurata. E, di conseguenza, vediamo anche il farsi periferico e marginale di antiche e e radicate pretese di centralità. Che un papa qualifichi come necessariamente “inquieta” “incompleta” e “piena di immaginazione” una teologia veramente cattolica è un evento di “ripresa” e di “rilancio” del Vaticano II che tra un secolo farà ancora parlare di sé. Ma, ovviamente, molto dipenderà da quanto, nel prossimo lustro, si potrà e si vorrà continuare lungo questa strada, che non è né larga né in discesa. Su questa via non è atteso anzitutto Francesco, ma la Chiesa che da lui si lascia servire, per ritrovare, essa in prima persona, quella salutare inquietudine, quel sano senso di incompletezza e quella profetica immaginazione che sempre ha nutrito, lungo i secoli, le pagine più felici e i passi più coraggiosi della forma di vita cristiana e cattolica.
Gentile professore,
grazie per le parole, oppinioni e pensieri molto differenziati e sfumati che rendono chiare le complessità, profondità e necessità riguardo alla nostro tempo secolare, ecclesiale, di questo pontificato.
Oltre alle riflessioni che Lei condivide con noi, volevo ringraziare, perché le sue parole (almeno a me) portano una speranza riguardo al futuro e riguardo alla nostra vita comune (dei battezzati), cioè vita della Chiesa.
Ogni volta sentendo diversi autori parlare del Vaticano II e collegandolo con papa Francesco sono lieto di poter vivere proprio oggi.
Appena finito lo studio del I ciclo, mi auguro un buon proseguimento con eredità ecclesiale che non sapiamo custodire. La stiamo vigilando senza toccarla e senza riportarla ai fedeli che cercano i modi e le forme per vivere il loro battesimo con pochissimi sostegni sia ecclesiali che teologici.
Come se ci mancasse il modo (o il linguaggio) di scavare e sfruttare dal grandissimo patrimonio ecclesiale, teologico e spirituale.
Ogni epoca aveva il suo modo di tradurre quel patrimonio e di renderlo efficace per il proprio tempo. A me sembra come se la nostra epoca questa cosa non la sa fare, o non la si osa fare. Tanto implicito. Idee, principi e ideali generali e fissi che non sano esser interpretati nella vita d’ognuno. Assunti senza riflessione e a monte. Partiti dai ideali e non dalla situazione e dal vissuto.
E purtroppo, ci sfugge dalla vista che il mondo già è salvato, che Dio già ci benedice. In questo senso la Chiesa ha la responsabilità di rendere visibile, vivibile e sperimentabile la benedizione di Dio.
Appunto, papa Francesco, a mio avviso, lo fa. Mettendo l’uomo e lo sguardo umile e benedicente di Dio prima di ogni teoria, ideale, peccato, errore o qualsiasi cosa.
Però, scrivo qui, per ringraziarLe, perché anche Lei aiuta a me dando mi i concetti, categorie, punti di vista, costrutti linguistici per poter vivere e guardare oggi la situazione che la Chiesa sta vivendo.
Forse un immagine della nostra epoca ecclesiale è come se si trattasse dell’andarsene dalla casa dei genitori e del tagliare il cordone ombelicale.
Prima dell’epoca di Papa Francesco, quello che trovavo contrastante con la teologia morale che avevo studiato, era l’interpretazione “oggettivistica” – non oggettiva ma “oggettivistica” – della norma morale, che aveva il suo spazio, tutto il suo peso nella prassi. Sulla stessa linea, del “discernimento” si parlava solo nella teoria dell’atto morale, ma che avesse un peso nella prassi, non credo – era materia da esperti. Invece il pontificato di papa Francesco ha introdotto di più – e sta introducendo – di più nella prassi quegli elementi di contenuto – come quelli sopra indicati – che, se non osservati e praticati come sono stati evidenziati in questi 5 anni – a parere mio rendono ingiusta, in definitiva iniqua, la prassi stessa della Chiesa quindi la sua stessa azione pastorale. Perciò sono molto grato a papa Francesco, perché finalmente, discernimento, misericordia, riconoscimento delle condizioni soggettive – non “soggettivistiche” ma soggettive del “soggetto” agente, stanno entrando nella prassi ecclesiale. Una delle ragioni per cui è difficile annunciare la fede in Cristo in una società secolarizzata, è nell’ esasperato “oggettivismo” della norma morale.