“Ciò che non muore e ciò che può morire”: eutanasia, buona morte, diritto di vivere e diritto di morire
(Il buon Samaritano – Gunnar Bach Pedersen)
La lettera della Congregazione per la Dottrina della Fede “Samaritanus bonus”, fin dalle sue prime righe, pone la questione delicatissima della “cura delle persone nelle fasi critiche e terminali della vita” all’interno del rapporto tra teologia e tecnologia. Nuovi strumenti di “rianimazione” e di “sedazione” permettono di articolare diversamente le procedure con cui gli uomini e le donne giungono al termine dei propri giorni. Una grande “potenza di mediazione” è ricchezza e povertà, crea nuove opportunità e nuovi “scarti”. Dunque si tratta di coniugare i principi di civiltà con un contesto di circostanze in larga parte nuove, che possono smentire ogni principio o permettere di applicarne la forza con nuovo e particolare discernimento. Vorrei esaminare brevemente la struttura del documento per poi porre alcune osservazioni, di carattere sistematico, su una questione fondamentale.
La struttura del documento
Dopo aver rilevato, in fase introduttiva, la stretta correlazione tra compito etico e novità tecnologiche, il documento inizia (§.1) dal “paradigma della cura del prossimo” come orizzonte di senso della “cura medica”, la quale, pur sperimentando il limite della inguaribilità dei pazienti, non rinuncia mai al prendersi cura della persona inguaribile. Il Samaritano è qui il modello di buona cura del prossimo. Ma Cristo sofferente crocifisso (§.2) è non solo il riferimento, ma la “scena corale” che può ispirare la esperienza del dolore e della fine, da parte del paziente e dei suoi cari. Lo “stare” accanto al paziente, nei diversi luoghi di commiato dalla vita, diventa passaggio ecclesialmente e culturalmente qualificante. Ciò conduce (§.3) alla valorizzazione del Samaritano come “un cuore che vede”, un uomo che vede col cuore. La compassione apre alla scoperta del dono della vita e alla disponibilità a prendersi cura della vita altrui. In questo la Chiesa fa una esperienza di vocazione che si riflette anche in una evidenza naturale, che perciò chiede a tutti gli uomini di riconoscere come bene indisponibile la vita, propria e altrui. Ma queste evidenze conoscono una crisi dovuta a diversi fattori (§.4): i concetti di “qualità della vita”, di “morte degna”, di “compassione” rischiano di oscurare il valore della vita e di subordinarlo a sentimenti o inclinazioni nelle quali il bene e il male di confondono e si scambiano di posto. Tutto questo dipende, in ultima analisi, da un individualismo che caratterizza le società tardo-moderne e che produce una “cultura dello scarto” che prende spesso il tono e lo stile della “cultura di morte, per la quale eutanasia e suicidio assistito appaiono non come sconfitte, ma come illusorie soluzioni.
La sintesi magisteriale
Di fronte a questo quadro spirituale e contestuale, la sintesi che il magistero ha elaborato è complessa, poiché salvaguarda, contemporaneamente, il valore della vita e il diritto alla morte. Proprio questa articolazione della parte magisteriale indica, in modo evidente, che l’approccio non può che essere complesso e articolato, e implica un discernimento strutturale. Vengono così elencati 12 punti, per i quali rimando al testo della Lettera e mi limito a segnalarne il titolo:
1) il divieto di eutanasia e suicidio assistito
2) obbligo morale di escludere l’accanimento terapeutico
3) le cure di base: alimentazione e idratazione
4) le cure palliative
5) Il ruolo della famiglia e gli hospice
6) L’accompagnamento e la cura in età prenatale e pediatrica
7) Terapie analgesiche e soppressione della coscienza
8) Lo stato vegetativo e lo stato di minima coscienza
9) L’obiezione di coscienza di operatori e istituzioni
10) L’accompagnamento pastorale e il sostegno dei sacramenti
11) Il discernimento pastorale verso chi chiede eutanasia e suicidio assistito
12) La riforma del sistema educativo e della formazione degli operatori sanitari
Per lo più ogni tema è svolto con ampiezza e respiro. Si trovano, tuttavia, alcune affermazioni in cui, proprio quel discernimento che guida in generale il tenore del documento, sembra un poco vacillare. In particolare molto delicata risulta la “gestione” della presenza ecclesiale – da parte soprattutto dei cappellani – in contesto di decisioni per la eutanasia o il suicidio assistito. L’utilizzo della assoluzione posticipata – per favorire la conversione – e l’obbligo di assenza ecclesiale al momento della morte di chi ha scelto l’eutanasia non sono soluzioni che possano dirsi “univoche”. In questo caso, pur non potendosi certo mai escludere le prassi indicate, discernimento vorrebbe che, di volta in volta, si potesse stabilire, in base alle storie concrete dei soggetti e dei contesti, quale sia la scelta migliore. Il documento afferma con assoluta recisione, a proposito di una presenza del cappellano al momento in cui la eutanasia viene praticata al soggetto: “Tale presenza non può che interpretarsi come complicità”: forse il discernimento, se riferito al Samaritano, potrebbe essere qui un po’ meno drastico e tassativo.
La riflessione sistematica
Come dicevo all’inizio, l’orizzonte in cui la “cura del Samaritano” viene assunta come modello e come norma deve essere collocato in un mondo pieno di mediazioni, di vita e di morte, di cui la Chiesa ha ben chiara la potenza e di cui deve proporre adeguato discernimento. Qui vorrei allora suggerire un metodo di lettura del testo. Se lo leggiamo, proprio nel suo paragrafo decisivo dal punto di vista magisteriale (§. 5.), come un semplice elenco, non capiamo la complessità delle questioni. Proprio perché il dono della vita viene rispettato non semplicemente perché “non si uccide”, ma perché “si consente di morire”. Eutanasia, aiuto al suicidio e accanimento terapeutico sono “concetti limite”, fattispecie normative e concettuali che devono essere collocate nello spazio e nel tempo. Non vi è legge oggettiva che dispensi dal male né legge oggettiva che assicuri il bene. Senza discernimento la giustizia non è mai assicurata. Pertanto non siamo dispensati, anche di fronte alle forme dell'”intrinsece malum”, dal necessario discernimento. Non vi è dubbio infatti che eutanasia e suicidio siano un male, così come è un male accanirsi nelle terapie. Ma la distinzione tra i due mali non è mai così semplice e non si lascia trattare semplicemente come una “evidenza immediata”. Per questo anche ciò che è “intrinsecamente un male” – come “uccidere” e “levare la vita” – deve essere posto nel contesto suo proprio per essere giudicato in senso definitivo. La intrinsecità del male – che è concetto limite irrinunciabile – non può mai prescindere dalla “estrinsecità delle circostanze”, che possono diminuire o annullare la qualità negativa della azione.
Un testo da discutere
Verso la fine del terzo paragrafo, per sottolineare il valore inviolabile del dono della vita il documento scrive:
“Pertanto, sopprimere un malato che chiede l’eutanasia non significa affatto riconoscere la sua autonomia e valorizzarla, ma al contrario significa disconoscere il valore della sua libertà, fortemente condizionata dalla malattia e dal dolore, e il valore della sua vita, negandogli ogni ulteriore possibilità di relazione umana, di senso dell’esistenza e di crescita nella vita teologale. Di più, si decide al posto di Dio il momento della morte.”
Vorrei soffermarmi sull’ultima frase: si decide al posto di Dio il momento della morte. Questo modo di pensare e di parlare, che resta immediato e fondato, deve però tener conto che le “mediazioni terapeutiche” di fatto hanno profondamente alterato questa esperienza di vita/morte. E lo hanno fatto, per lo più, dilatando i “tempi della vita”. Chinino, penicillina, vaccini, operazioni chirurgiche, macchine della rianimazione hanno “alterato” il corso naturale delle cose. Pertanto abbiamo oggi “condizioni di vita (e di morte)” che sono profondamente alterate dall’intervento umano. Questo complica molto il giudizio che possiamo e dobbiamo dare sui soggetti implicati in “fasi terminali”. Ad es., se una macchina della rianimazione ha ridato respiro e battito cardiaco ad un paziente, e lo restituisce al cosiddetto “stato vegetativo”, che è in larga parte una “creazione umana”, come si deve distinguere, in tal caso, l’accanimento terapeutico da evitare dalla eutanasia da escludere? In quale senso “Dio vuole” ciò che l’uomo ha prodotto? La risposta alla domanda implica competenze strettamente tecniche e giudizi “in loco”, non semplici evidenze morali. Pensare di risolverla soltanto in base a principi astratti rischia di dimenticare che, in questi casi, l’atto morale pertiene rispettivamente al malato, ai suoi parenti stretti, e al medico. E questo imbarazzo morale sta in equilibrio precisamente tra quei “concetti opposti” (eutanasia e accanimento terapeutico) che nella realtà sono profondamente correlati e intricati. Potremmo dire che il dissidio sta proprio tra i due sensi diversi di eutanasia: tra eutanasia come “decido io quando morire” e eutanasia come “morire bene, in pace, in compagnia”. Certo non si possono identificare, ma neppure si possono opporre.
Questo non significa affatto che debbano tramontare le evidenze etiche, il valore indisponibile della vita in ogni suo momento e la dignità di ogni persona umana. Ma che questi principi giudicano fattispecie ogni volta diverse, che come tali devono essere considerate, con tutte le loro specificità. Perché la verità risplende solo se di volta in volta la luce è assicurata e donata. E la luce viene non solo dal cuore, ma anche dalle parole. La indisponibilità del bene della vita, propria e altrui, è il grande mistero di Dio e del prossimo. Ma Dio, nella sua misericordia, passa non solo nei cuori, ma anche nelle parole. Così, al cuore della moglie, lacerato dalla scelta suicida del marito, gettatosi nel fiume, il Curato d’Ars diceva: “Dio tra il ponte e l’acqua può fare miracoli”. Così di fronte alle forme attuali di gestione più o meno responsabile dei passaggi finali della vita terrena, un uso accurato delle parole, un giudizio equilibrato sulle leggi oggettive e sui discernimenti soggettivi diventa la via obbligata perché il modello del Buon Samaritano e del Cristo sofferente possano ispirare i cuori, guidare la prassi e suggerire alle bocche e alle menti “la preferenza progressiva per le parole e i concetti più semplici, più sereni e più pacificanti”. Perché alle questioni complesse non si danno mai soluzioni troppo semplici e dirette, mentre la distinzione tra ciò che non muore e ciò che può morire non è mai limpida e immediata, ma esige sempre grande fede, accesa speranza e tanta carità.
I fondamenti spirituali culturali di un nuovo discernimento in Gesu’, Dio e uomo
Giugno 23, 2020 / gpcentofanti
I fondamentali riferimenti del discernere concreto del Gesù dei vangeli, nelle loro linee generalissime li possiamo rintracciare narrativamente ben delineati per esempio in Gv 1, 29-34. E approfonditi, tra l’altro, in Lc 10, 27. La coscienza spirituale e psicofisica, il cuore, che esiste e matura nello Spirito che scende delicatamente, a misura, come una colomba. Lo Spirito, dunque, come una colomba e Gesù come un agnello, docile e piccolino (cfr Mt 11, 29), sul quale lo Spirito stesso scende e rimane, come nel suo nido naturale. Si nota dunque un movimento dall’alto, dallo Spirito, ma anche dal basso, dall’umanità, che è via per l’intuizione dello Spirito autentico, per esempio non spiritualistico, razionalistico, pragmatistico, moralistico… Nello sperimentare vissutamente, per grazia, questo duplice movimento sono stato condotto ad intuire in modo rinnovato la vita della stessa Trinità.
Il Padre genera il Figlio nello Spirito. Ma il Padre stesso e lo Spirito non possono esistere senza il Figlio. Solo la comunione d’amore è vita. Il Padre è l’origine perché se non vi fosse un’origine si tratterebbe di tre persone giustapposte. Lo Spirito è il ponte, la via comunicativa, amorevole, che consente al Padre e al Figlio di entrare totalmente, delicatamente, l’uno nell’altro, senza confondersi. Senza lo Spirito si tratterebbe di due persone giustapposte. Per esempio un Dio “mono”, triste, chiuso in sé, senza il respiro dello Spirito, non potrebbe appunto respirare, esistere. Solo l’amore, dunque è vita e l’amore è Padre, Figlio e Spirito Santo. Questa vissuta interpretazione della Trinità in Cristo, Dio e uomo, nel distinguere e collegare i vari elementi, spirituali, umani, “materiali”, rivela anche i fondamenti spirituali, umani, “materiali”, della logica. Non una logica razionalistica, da tavolino, chiusa in sé. Non una logica solo induttiva, pragmatica. Ma una logica trinitaria in Cristo, Dio e uomo. Un mistero dunque nel quale si può sempre più profondamente venire condotti lasciandosi, per grazia, portare da Gesù. Maturando sempre più profondamente, equilibratamente, spiritualmente e umanamente, per grazia, su questa via. Una logica viva, spirituale e umana. Un vivo intuire, discernere, in vivo contatto con la realtà viva. Non schematismi astratti, variamente a tavolino.
Ecco che prendono a delinearsi le basi per un rinnovato incontro tra la fede e la, ora rivista, scienza. Non più il secolare, ripetitivo, paradigma di fede e ragione. Se questa è la via profondamente rinnovate sono anche, per esempio, la teologia, la filosofia, la psicologia… Come osservo dettagliatamente in diversi interventi precedenti. Tutto è tendenzialmente, per grazia, vivificato, equilibrato, ben distinto, messo tendenzialmente in sempre più profondo, adeguato, contatto, per le adeguate, concrete, vie spirituali, umane, “materiali”, con il resto. Dunque possibile sempre nuova adeguatezza, efficacia, Dio volendo, in ogni campo.
La visione della Trinità dunque non è un pensiero a tavolino ma nasce da profondi orientamenti spirituali e umani. Che tendono a plasmare ogni cosa. In un orientamento che solo per brevità chiamo spiritualista tutto discende dal Padre, più passivo è il ruolo del Figlio e dello Spirito, come in una certa possibile visuale trinitaria orientale. Da questa tendenza può discendere proprio anche una propensione all’indipendenza di ogni Chiesa regionale. In un orientamento più pragmatico il Padre genera il Figlio e poi si amano nello Spirito, evidenziando la loro parità, come in una talora ormai vecchia, ma non tanto, visione romana. Tale tendenza pragmatica può manifestare una propensione a risolvere i rapporti tra Chiese sul piano di un variamente formale potere giuridico.
La via del cuore nella luce serena, a misura, può orientare alla visuale trinitaria in Cristo, Dio e uomo, descritta all’inizio di questo intervento. Essa può superare le altre due successivamente esposte conservandone le molteplici istanze positive. Il primato del Padre e la sua parità col Figlio non si oppongono ma al contrario o stanno insieme o non possono darsi. Anche nella Chiesa non vi è parità senza primato né vi è primato senza parità. E bisogna considerare il rapporto dei vescovi con le diocesi, che sono parte viva di questa comunione. Anche nell’ottica, per esempio, di un san Pietro, che prima di Roma è stato, pare, vescovo di Antiochia e forse anche di Alessandria d’Egitto. Forse sono questi tra gli orientamenti nuovi che vanno gradualmente emergendo.
Può accadere per esempio che qualche buon teologo sia aperto a questi stimoli ma che fatichi, almeno inizialmente, ad uscire più profondamente da un sia pur residuo intellettualismo. Di per sè però non si tratta dell’aprire rinnovati percorsi con il viverli da parte di alcuni mentre altri ne approfondiscono i possibili sviluppi culturali in varia misura a tavolino. È la stessa vita di ciascuno, anche nella condivisione, è il vissuto, sempre più profondo, centrarsi in Cristo, Dio e uomo, che orienta a scoprire sempre più distintamente, equilibratamente, i riferimenti spirituali e umani del vivere potendo rinnovare ogni cosa, anche nella cultura. Nell’intervento precedente ( http://www.lastampa.it/2017/01/17/vaticaninsider/ita/commenti/vie-pi-umane-possono-avvicinare-in-modo-nuovo-tanta-gente-in-parrocchia-MVIwk8OqGtKqwMr8r3wS8K/pagina.html ) mi riferisco per esempio alla psicologia. Qui sopra ho accennato anche ad una nuova logica. Riferendomi ai suoi aspetti spirituali-umani-“materiali”. Non vediamo per esempio una possibile trinitarieta’ anche nel creato? Vi è la voce, il suono, l’udito; il sole, la luce, la vista…
Stiamo entrando dunque in un passaggio da concetti da tavolino a consapevolezze della coscienza. In una cultura ancora razionalista può risultare talora impossibile cercare di spiegare, magari anche dettagliatamente, ad uno studioso quali possono essere i nuovi riferimenti, i nuovi paradigmi, fondamentali e cosa possono comportare i vecchi e i nuovi. La gente invece coglie subito, tendenzialmente, il senso delle cose fondamentalissime. Proprio perché così umane. Come il cuore nella serena luce, il buonsenso nella fede… E gioisce al sentirsi compresa in tutta la propria umanità, nel proprio personalissimo cammino, nei propri bisogni. È il vissuto, con le sue necessarie concrete novità, che si potrà fare gradualmente sempre più profonda, dettagliata, cultura. Allora in un vissuto diffuso i nuovi paradigmi potranno venire riconosciuti come naturali per tutti. Mentre oggi può apparire in qualche modo naturale ad uno studioso in tal senso strutturato anche il ben più astruso, meno, mi pare, umano, paradigma razionalista.
Lo Spirito scende delicatamente, come una colomba e rimane nel cuore di Cristo, come nel suo nido naturale. La sua umanità (e anche la nostra in lui) dunque è via per intuire lo Spirito autentico, per esempio non cerebrale, rigido… Trovandomi, per grazia, con l’aiuto di molti, specie del mio padre spirituale, su questo cammino ho gradualmente sperimentato sempre più profondamente una libertà a pieni polmoni, perché scoprivo vissutamente che Dio è amore senza limiti e condizioni. Mi sono accorto già prima del 2000 e ho cominciato ad osservare anche per iscritto che forse, superando magari qualche timore di esporsi, si poteva chiarire più profondamente nella Chiesa come la misericordia di Dio è senza limiti. E già intorno al 2000 ho cercato di trasmettere anche per iscritto che forse qui si poteva trovare una limpida soluzione alla questione ecumenica della giustificazione. Accogliendo anche alcuni possibili stimoli del mondo protestante si può affermare appunto che la misericordia divina è senza limiti. Non dimenticando le istanze cattoliche si può nel contempo affermare che Dio è delicato, rispetta la libertà dell’uomo. Il quale dunque può scegliere il suo destino, anche giungere a rifiutare definitivamente e a suo modo con piena consapevolezza (implicita se per esempio ateo) la misericordia del Signore. Ma non era forse, magari, proprio questa la risposta che, per esempio, cercava Lutero?
In questo intervento ho cercato di descrivere con qualche esempio come la sequela di Cristo mi ha condotto a scoprire vissutamente possibili visuali nuove, a tutto campo. Pensiamo anche, per esempio, ad una pastorale sempre più viva, a misura, per tutto l’uomo, non solo per un suo astratto spirito o una sua ragione a tavolino; per ogni specifico uomo. Ho vissutamente scoperto come cercando il discernere concreto, divino e umano, di Cristo potevo intuire in modo nuovo gli intenti positivi dei vari orientamenti e anche coglierli, armonizzati, anche con altri aspetti nuovi, nel suo cuore. Tante sfumature, tanto oscillare, della ricerca umana sono dovuti anche proprio al bisogno di trovare sempre più questo equilibrio in Gesù, Dio e uomo. Nei miei interventi accenno a molti altri possibili concreti sviluppi, anche in campo ecumenico, su questa via. Il cielo e la terra si possono sempre più profondamente incontrare in Cristo.
Il cuore divino e umano di Gesù è la chiave di ogni cosa.