Concerto Triplo: Salmann, Sequeri e Theobald sul futuro della teologia


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Nel pomeriggio romano del 5 maggio, e ora disponibile qui, si sono avvicendati in sequenza tre fra i più acuti teologi cattolici, per configurare il futuro della teologia di fronte alle sfide culturali e istituzionali degli ultimi decenni. La iniziativa viene dall’Istituto Giovanni Paolo II e rappresenta senza dubbio da un lato il frutto di un profondo ripensamento di questa Istituzione accademica, ma dall’altro anche il promettente inizio di un “cantiere della immaginazione”. Un concerto triplo, dunque, che dura circa 150 minuti. Con tre strumenti, tre stili, tre nazioni e tre visioni diverse, in reciproco ascolto, e che vale la pena considerare anzitutto nelle loro peculiarità. Vorrei parlarne brevemente, in un ordine diverso da quello della “esecuzione”: preferisco il programma di sala, che predilige l’ordine alfabetico e che così risulta più adeguato all’ascolto.

1. Il violino: Salmann e il fenomeno da accompagnare

Inizio dalla lettura più libera e più sorprendente. Uno sguardo “da fuori” sugli ultimi 70 anni, da Pio XII a Papa Francesco, con un grande mutamento sia nella immagine di Dio, sia nella coscienza dell’uomo. Senza nostalgia, ma senza illusioni. Una teologia che “accompagni le metamorfosi” e che si disponga a mediare i misteri. Una teologia pensata “al confine tra Germania e Olanda” ma riscaldata dal destinatario romano e dalla carica metaforica del linguaggio. Una sapienza che coniuga il Padre onnipotente e un verso poetico sul Dio indesiderato, in una sorta di “atarassia emozionata” e di “molteplicità da riconciliare”. Una parola sciolta, accogliente e libera, senza tecnicismi disciplinari, ma anche senza mediazioni esplicite di carattere istituzionale.

2. Il violoncello: Sequeri e il logos da riscattare e da riarticolare

Il timbro è diverso, più basso, con meno acuti, ma elaborato su due punti di evidenza: la uscita dai luoghi comuni della “koiné teologica contemporanea”, per ritrovare una vocazione originaria della fede con il logos. E di qui  la concentrazione su un “sacro” che sappia, anche oggi, come ieri, distinguere ciò che è da consacrare e ciò che è da sacrificare. Una sapienza teologica che sappia essere per la folla e che voglia entrare con coraggio e fiducia nella cultura comune, portando il proprio bagaglio prezioso, senza pretendere di “sdottorare sull’umano”. Un approccio più esigente, più canonico, non meno paradossale.

3. Il pianoforte: Theobald e la correlazione tra teologia e magistero

Il terzo strumento suona “a due voci”: mette chiaramente in relazione la vocazione della teologia e quella del magistero e si preoccupa di recuperare le intuizioni fondamentali del Vaticano II, superando le riduzioni patite fino a papa Francesco. In questo caso è evidente che per la teologia cattolica una esplicita mediazione istituzionale – autorevole e magisteriale – deve essere apertamente e chiaramente tematizzata. Altrimenti il rischio della astrazione ricade sulla teologia a causa della correlazione strutturale tra epistemologia ed istituzione. Anche la teologia più sciolta sarebbe vana se trascurasse gli assetti strutturali, delle ermeneutiche e delle autorità.

Tutti e tre i discorsi, qui ridotti a francobollo, suonano preziosi. Sono lo specchio di un’epoca e di scuole diverse ma non incompatibili: vengono dalla singolare unione di sapienza monastica e fenomenologia, di sapere fondamentale ed estetico, di ermeneutica e storia della teologia. Possono così elaborare uno sguardo fresco sulla realtà, recuperare il lato “pensato” della fede, assumere la mediazione istituzionale della tradizione. Tuttavia una integrazione dei tre discorsi non è così semplice, per almeno tre motivi.

a) Per uscire dalle secche di una teologia “autoreferenziale” – della quale ha parlato soprattutto il violoncello di Sequeri – è inevitabile fare i conti non solo con la realtà della vita, ma anche con quella della istituzione. Un discorso sui diritti del “logos”, così come Sequeri lo ha formulato, può trovare certo una consonanza con modelli del passato – egli ha citato soprattutto il Concilio di Trento e Ratzinger – ma è certo che non può più avvalersi delle forme di mediazione istituzionale, né del primo né del secondo. Una fede senza catechismo non è fede: questo è vero. Ma un catechismo irrigidito e arroccato non è più una garanzia, ma una minaccia. Per questo una cura per lo sguardo “da fuori” (alla Salmann) e una riflessione sulle “forme di mediazione magisteriale” (come in Theobald) diventa decisiva per un ripensamento efficace della “vocazione logica” della fede.

b) La sapienza, che trova di volta in volta, come un rabdomante, la faglia dell’acqua a cui dissetarsi resta una virtù insostituibile. Ma il violino di Salmann sa bene che per accompagnare uomini e donne nelle metamorfosi occorrono linguaggi comuni, forme comuni, azioni comuni. Su che cosa si debba “sacrificare” e che cosa “consacrare” – per usare la terminologia di Sequeri – occorrono “decisioni” formali. Non è un caso che, proprio venendo dal nord della Germania, la parola di Salmann sia apparsa tanto illuminante quanto discretissima nell’indicare le vie concrete di soluzione dell’imbarazzo. Se si permette di leggere ogni “immaginazione” come scisma, sarà ben difficile trovare non dico una nuova faglia, ma anche solo un nuovo rubinetto che non venga immediatamente piombato.

c) Una ermeneutica del Vaticano II può diventare una “logica” e un “accompagnamento” solo a condizione di resistere alla tentazione della “normalizzazione”. Questo punto è decisivo, soprattutto per un tentativo di “apertura alla immaginazione” che non può essere pensata “sotto tutela”. I mutamenti di linguaggio e di ratio sono anche mutamenti di autorità. Per questo una accurata determinazione della “polarità” tra magistero della cattedra pastorale, e magistero della cattedra magistrale o viene esplicitamente affrontato, o rende vano il tentativo della immaginazione.

Perciò i tre strumenti non solo ci hanno dato tre linee melodiche e prospettive, ma ci hanno anche indicato le correlazioni necessarie “tra” i loro discorsi: per così dire i crediti e i debiti reciproci tra di loro. E questo è stato possibile proprio perché c’è stata tra loro, ed era quasi palpabile, una affinità e una somiglianza superiore alle pur chiare differenze e distanze.

Potrà sembrare curioso: pur venendo da un Istituto che è per vocazione dedito allo studio del matrimonio e della famiglia, il Concerto triplo poco ha parlato di questi due temi. Da un lato questo è ovvio, perché il tema del Convegno era “immaginare la teologia” a livello epistemologico. D’altra parte è del tutto naturale che sia proprio il discorso su matrimonio e famiglia, il primo dei temi che Gaudium ed Spes tratta per istituire un rapporto significativo con il mondo contemporaneo, a suscitare tutta questa mobilitazione di concetti e di affetti. Una teologia cattolica del matrimonio e della famiglia esige, oggi, questa via lunga di rispetto del fenomeno, di elaborazione della ragione e di ermeneutica conciliare. La fiducia sul futuro, che i tre relatori hanno lasciato chiaramente trasparire nel loro Concerto Triplo, è di grande conforto, anche se non rende meno dura l’impresa di traduzione, di accompagnamento e di discernimento, che i linguaggi, le rationes e le forme istituzionali devono accingersi ad intraprendere, senza ulteriore indugio. Con la consapevolezza che senza una teologia ricca di immaginazione, non si potrà fare alcuna riforma della Chiesa. Ma senza una riforma della Chiesa la teologia finirà per immaginare tutto, meno che la realtà.

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