Contagio, infermi e colpevoli: fraternità nell’ospedale da campo


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Tra le dimensioni più delicate e più profonde del contagio che stiamo combattendo vi è la relazione tra comportamento e malattia. In generale vale il principio per cui un comportamento irresponsabile – mancanza di sanificazione, di distanziamento e di utilizzo corretto della mascherina – rende più facile il contagio di sé e degli altri. Ogni sottovalutazione del “protocollo”, ogni leggerezza, può causare danni anche considerevoli.

Questa “attenzione sociale” costruisce una sorta di barriera tra il contagio e i soggetti e può far nascere l’idea – non nuova in tutta la dinamica patologica e clinica – che il rapporto con il contagio sia semplicemente “controllato dal comportamento dei soggetti”. E che, in qualche maniera, ogni contagio,  a fronte di questa deontologia sociale, sia considerato più o meno consapevolmente come frutto di un errore. E che quindi ogni contagio si possa ridurre alla colpa o di chi è contagiato, o di chi ha contagiato, o di entrambi.

E’ inevitabile che le “misure di sicurezza” accentuino questa tendenza generale alla “immunizzazione dal virus per onestà di vita”. D’altra parte questo corrisponde ad una tendenza comune, comprensibile, ma che risulta anche assai insidiosa: essa consiste nel difendersi dai morbi ritenendo che ogni malattia venga “per colpa”. Nell’inconscio di molte reazioni, anche a malattie molto meno gravi di quella che oggi ci preoccupa, l’idea troppo semplice che abita il nostro cuore è questa: il raffreddore viene se non ti copri. Quindi se ti copri non ti viene il raffreddore. Quindi chi ha il raffreddore, è malato “per colpa sua”. Questo modo di pensare – umanamente comprensibile, ma logicamente pieno di errori – costituisce un formidabile antidoto soggettivo e arbitrario contro ogni malattia. E’ un modo di “salvarsi”, che causa tuttavia una grande distorsione nel modo di considerare la malattia in quanto tale. Moralizzare la malattia – che è cosa normale – tende ad innalzare un sistema di autogiustificazione retorica, ma raramente assicura una vera comprensione di ciò che accade davvero.

Ovviamente è altrettanto sbagliato pensare o che la malattia sia una “invenzione” del potere politico, o che ogni mezzo per combatterla sia destinato al fallimento. Non è così. Bisogna però resistere alla tentazione di far scadere la lotta morale contro il contagio nel moralismo che colpevolizza i contagiati. Questo oggi accade in diversi ambienti: la scuola, il lavoro, lo sport, il discorso politico. E’ facile imputare ai contagiati il loro stesso contagio. Qualche volta può essere giustificato. Come criterio generale è assai rischioso.

In realtà , il passaggio dal comportamento al contagio, e dal piano patologico al piano morale non è mai diretto, ma chiede mediazioni delicate e non può essere gestito in modo semplicistico. E’ ovvio che chi irresponsabilmente non adotta alcune delle attenzioni richieste, espone se stesso e gli altri ad un rischio maggiore. Ma è altrettanto ovvio che anche chi adotta scrupolosamente ogni sistema di protezione non è del tutto al riparo dal contagio. Ciò che è giusto dire in generale, come una tendenza ben chiara, è assai ingiusto imputarlo ad ogni soggetto che si trovi in una condizione di contagio/malattia.

Anche in questo caso, la cura del contagiato/malato, che pure esige il rispetto della libertà e della eguaglianza, fiorisce solo nella fraternità. Tutte le migliori strutture sanitarie e tutte le più adeguate disposizioni amministrative trovano nel “rispetto del diverso” il loro snodo decisivo. In modo particolare dovremmo considerare, proprio in questo frangente tanto delicato, la diversa strategia con cui storicamente la chiesa ha reagito alle “crisi” di fede, che possono essere dovute a colpa o a malattia. Cadere nel peccato e cadere nella malattia sono forme della crisi che hanno cause diverse, manifestazioni diverse e procedure diverse di riabilitazione. Sia pure con le specificità di una contagio di portata pandemica, la risorsa fondamentale del rapporto con il malato – senza nulla togliere alla somministrazione dei farmaci adeguati – resta il tatto. Anche in caso di “distanziamento” il tatto con cui trattiamo i “positivi”, i “contagiati” e i “malati” costituisce una forma qualificante della risposta che la città e la comunità cristiana può dare alla difficile contingenza che stiamo attraversando. Siccome l’ospedale da campo è una “metafora ecclesiale” particolarmente efficace, la giusta lotta contro la irresponsabilità sociale non deve mai scadere nella colpevolizzazione del malato. Prenderci cura gli uni degli altri, anche mediante i “dispositivi anticontagio”, non è per costruire il muro del giudizio tra positivi e negativi, ma per ampliare lo spazio di fraternità tra gli infermi.

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