Corpus Domini e celebrazione eucaristica: i due registri da ricalibrare
La celebrazione del “Corpus Domini” di quest’anno, in condizione di “presidio sanitario”, ci ha sorpreso e ci ha dato da pensare, più del solito. Forse proprio perché “costretti” entro un regime sorvegliato di azioni e di rinunce, abbiamo visto con singolare evidenza le pieghe e le luci, le ombre e le consolazioni della tradizione. In particolare la condizione eccezionale ha fatto emergere, nella trama profonda della festa, una serie di equivoci e di “blocchi” sui quali dobbiamo sostare a riflettere, con pacata lungimiranza. Lo facciamo tenendo sotto mano il testo della Bolla Transiturus che, quasi 800 anni fa, aveva istituito questa festa nella trama liturgica delle celebrazioni ecclesiali.
a) Il Triduo pasquale “all’antica”
Nella Bolla Transiturus con cui Urbano IV nel 1264 istitutuì la festa del Corpus Domini, collocandola nel primo giovedì dopo l’ottava di Pentecoste, una delle sue motivazioni, che certamente può sorprendere se riletta oggi, è che nel giorno che celebra la “istituzione dell’Eucaristia” – ossia l’inizio del Triduo pasquale con la messa “in coena Domini” – si doveva allora costatare una distrazione dall’eucaristia a causa dei riti pasquali. Il testo antico dice parole che ci colpiscono molto:
“Infatti nel giorno della “messa in Coena Domini”, nello stesso giorno in cui Cristo ha istituito questo Sacramento, la Chiesa Universale, impegnata nella riconciliazione dei fedeli, nella benedizione del crisma, nell’adempimento del comandamento della lavanda dei piedi e in molte altre sacre cerimonie, non può prestare piena attenzione alla celebrazione di questo grande sacramento.”
Curiosa osservazione, che viene da un passato pieno di fede e di devozione, dove però le “cerimonie pasquali” emarginavano, con la loro urgenza e articolazione, la centralità dell’eucaristia. Il recupero di questa centralità, dopo le riforme iniziate con Pio XII, deve condurci ad una interpretazione meno “esclusiva” del Corpus Domini nell’ambito della esperienza eucaristica. Essendo cambiata sia la “messa quotidiana”, sia la “messa in Coena Domini”, anche il Corpus Domini assume un significato diverso, direi meno esclusivo. La tradizione rielabora i suoi contenuti, attraverso una delicata ricalibratura degli equilibri tra le sue parti.
b) La logica della “messa valida” non basta
Un secondo punto qualificante questa festa è proprio il suo “contenuto” eucaristico. Il “farsi corpo” del Signore in mezzo ai suoi dice sovrabbondanza del dono. Il dono si identifica con il suo donatore, come dice la bolla Transiturus:
“Liberalità singolare e ammirevole, in cui il donatore viene come dono, e il dono e colui che dà sono la stessa realtà”.
Questo ci deve far pensare alle categorie “minimaliste” con cui spesso ci riferiamo alla eucaristia e alla loro insufficienza. La festa del Corpus Domini può aiutarci a comprendere meglio anche il “disagio” che abbiamo vissuto durante la fase più dura della “pandemia”, quando, a causa del “contenimento civile”, è stata ripetuta l’idea che la “messa” potesse prescindere dal popolo che celebra. E sono state impiegate, di nuovo, le categorie minimaliste della “messa valida” e della “messa senza popolo”. Curiosamente, anche la messa “in coena Domini” ha subito questa rilettura minimalista. Proprio nella festa di ieri è chiaro che non si tratta affatto di contestare queste categorie, ma di riconoscerle come “categorie residuali”. Potremmo dirlo così: riconoscere la messa “valida” significa coglierne una logica “minima”, del tutto eccezionale, che non riesce a dirne la verità piena. Una messa, se è solo “valida”, non è pienamente se stessa. Una messa è messa se è “più che valida”. Questo è evidentissimo al cuore della festa di ieri, In effetti la “festa del Corpus Domini” è un solenne superamento ante litteram della categoria di “messa valida”, perché nella messa valida può fare la comunione solo il prete, mentre la messa del Corpus Domini vede al suo centro la comunione di tutto il popolo. Qui possono venirci in aiuto categorie classiche e preziose, come quelle che identificano le “azioni supererogatorie”, azioni che non sono né comandate, né proibite, né permesse, ma qualificano chi le compie in termini di pienezza e di compimento. Il “corpus Domini”, nella sua originalità, e depurato del contenuto apologetico che pure lo ha caratterizzato in origine, ci parla di questa “gratuità”del dono di sé, che il Figlio di Dio ha aperto alla esperienza di ogni uomo e di ogni donna, nel “suo” corpo e nel “loro” corpo. Un bel libro, appena uscito, di Stefano Biancu (Il massimo necessario. L’etica alla prova dell’amore, Milano, Mimesis, 2020) ci aiuta a entrare a fondo in questa differenza di azione, che la festa del Corpus Domini in un certo senso porta alla massima evidenza.
c) la relazione tra celebrazione e adorazione
Un terzo aspetto, strettamente correlato ai primi due, riguarda in modo particolare la relazione tra celebrazione e adorazione:
“Dedit igitur se nobis Salvator in pabulum”
dice la Bolla, ossia “Il Salvatore si è dato a noi come cibo” e così orienta la festa ad una solenne “comunione” di tutto il popolo. Si tratta di “ricevere il sacramento”, di entrare nella logica del “corpo del Signore”, di “fare corpo con Lui”. La recezione della bolla, nei secoli, ha spostato in parte l’accento dalla comunione alla adorazione. Al punto che, se la lettura liturgica della festa procede con le categorie minimaliste di cui ho parlato prima, è inevitabile che si cerchi il “surplus” di significato dell’eucaristia in una “adorazione statica” piuttosto che nella dinamica della azione. Se la comunione è “una cerimonia esterna”, che è “ad validitatem” solo per il prete, ma non per il popolo, solo l’adorazione risulta veramente spirituale. E questo disagio permane anche oggi, al punto che nella giornata di ieri non raramente abbiamo assistito ad una sorprendente sovrapposizione di rito di comunione e devozione di adorazione, come se fossero “cose diverse”, al punto che, appena finito il “rito di comunione” – che è il punto più alto della adorazione eucaristica – e forse a causa della impossibilità di “processione” per via del presidio sanitario, si è proceduto ad un momento di adorazione, che spesso ha sostituito il rito di congedo della messa. Anzi, pare che le “norme” prevedessero proprio un “rito di comunione” che si concludesse con una devozione di adorazione. Qui è evidente che si sovrappongono due registri assai diversi e non del tutto armonici.
d) Due registri da ricalibrare
Cerchiamo di mettere ordine tra i due registri:
– dove avviene il rito di comunione, “quello” è l’atto di più alta adorazione, rendimento di grazie, lode e e benedizione. Una “benedizione eucaristica” e un “rendimento di grazie adorante” aggiunto al rito di comunione è semplicemente una interferenza tra registri diversi. Questo non capita solo nel giorno del Corpus Domini. Spesso avviene anche il 31 dicembre, quando la benedizione eucaristica con il Te Deum segue la messa vigiliare. Ciò che è giustificabile come “conclusione del Vespro” non è plausibile al termine della celebrazione eucaristica. Non si tratta di “cerimonie fungibili” a cui “aggangiare”, ad ogni costo, l’elemento qualificante della “benedizione eucaristica”.
– la tradizione di “processione esterna” alla Chiesa riguarda una esperienza diversa dal celebrare eucaristico ecclesiale. Ha piuttosto a che fare con il mondo, con la logica eucaristica del secolare, con il rapporto “extra moenia”. Ma ciò che si giustifica “ad extra” non è immediatamente traducibile “ad intra”.
– eventualmente “dopo il congedo” si può dare un “prolungamento adorante”, ma questo non dovrebbe accadere “dentro la sequenza rituale”. Qui, a me pare, le normative che molte diocesi hanno adottato sembrano poco chiare. Ne cito una, che riprende il canone comune, come è stato seguito in molte diocesi e parrocchie:
“Dopo la distribuzione della comunione si ripone l’Eucaristia nel tabernacolo e si espone l’ostia consacrata nell’ostensorio, mentre si esegue un canto eucaristico; oppure, se non si usa l’ostensorio, si lascia sull’altare la pisside chiusa con il coperchio. Se si usa l’incenso, si infonde l’incenso nel turibolo e si incensa l’Eucaristia. Quindi chi presiede va alla sede e prega l’orazione dopo la comunione. Si può quindi proseguire con un tempo di adorazione eucaristica.”
Una prassi così articolata perde una evidenza centrale anche per la bolla Transiturus: il centro della relazione con Cristo è “suscipere sacramentum”. In normative così concepite continuano ad influire quelle teorie e prassi dell'”uso del sacramento” che equiparano “visione” e “manducazione”, facendo della prima una versione alternativa della seconda, spesso pensata come “più spirituale”. La messa si compie con la comunione, che è la forma più alta della adorazione. Successivamente ad essa, una volta conclusa la celebrazione eucaristica e sciolta la assemblea, è ben possibile compiere processioni o sostare in adorazione. Ma se si compie questo gesto all’interno della celebrazione, si alterano gli equilibri interni alla sequenza rituale e si rischia di ridurre la “comunione” a una “cerimonia esterna” meno intensa della adorazione. Se proprio nel giorno del Corpus Domini arriviamo a queste sovrapposizioni e confusioni, come potremo tornare a celebrare le messe domenicali e quotidiane, con tutta la ricchezza di cui sono generose custodi?
Tutte questo luci e queste ombre sono apparse in modo più evidente grazie al presidio sanitario dovuto alla pandemia, che rivela i pensieri segreti dei nostri cuori. Grazie alle mascherine siamo più nudi. Ma questa nudità non ci fa male, può farci crescere, anche portandoci a riscoprire le vere intenzioni con cui la tradizione ci orienta e ci conduce. Purché ascoltiamo davvero la sua parola sorprendente e il suo bisogno di calarsi nella azione rituale comune, senza dare credito soltanto alle nostre abitudini più radicate, anche di quelle che ci sembrano le più devote.