Cultura civile e teologia (/8): Sapere civile e umano comune (G. Villa)
Continua il confronto sul rapporto tra sapere accademico italiano e sapere teologico con questo nuovo intervento di Don G. Villa.
Dal meccanismo formale e svigorito del sapere civile
all’auspicabile concorso sull’umano comune
Nel post precedente (il n. 6) ho scritto della teologia come scienza, in quest’altro vorrei proporre alcune riflessioni sulla cultura civile, rimandando alla parte finale del post precedente (6).
La competenza teologica, che G. E. Rusconi dichiara di non avere nel suo libro “La teologia narrativa di papa Francesco”, non è un caso isolato e non si colma rinviando alla necessità che la teologia sia di nuovo introdotta nelle università. La questione è più delicata di quanto appaia, perché la competenza si collega immediatamente alla professionalità ‒ che matura su quella competenza ‒, che consente l’identificazione esistenziale. La competenza conoscitiva dunque e la professionalità e identità esistenziale fanno un tutt’uno in un equilibrio che non è casuale, ma è innescato e portato a maturazione da percorsi formativi propri della modernità.
1. Diversità del sapere civile e della teologia ieri ed oggi
a. Si tratta però di una modernità diversa rispetto da quella che portò in Italia all’espulsione della teologia dalle Università1. Allora il sapere civile e la teologia erano due mondi paralleli e opposti, oggi la deriva contemporanea della secolarizzazione europea ha generato una nuova figura: l’agnosticismo interessato alla religione e indifferente alla fede2. L’assetto di questa figura si esprime oggi volentieri nella dichiarazione di “essere laico”: e quindi, ovviamente, “non credente”. Diversi aspetti di questa “non credenza” si distinguono dall’idea moderna di “incredulità”, che indicava prevalentemente una scelta oppositiva alla fede e la negazione di ogni valore della religione. D’altro canto, essa mostra di considerare problematica non tanto la tradizionale pretesa di “assolutezza” dei simboli e delle manifestazioni del “sacro”, quanto piuttosto l’idea di una fede che si identifica con l’assolutezza della sua verità. Essa esprime di fatto un’intenzionalità disposta a lasciarsi coinvolgere culturalmente ed emotivamente dalla tematica religiosa, ma rimanendo accuratamente a distanza dall’assunzione teorica e pratica di una identità credente.
b. In secondo luogo il sapere civile allora esprimeva lo slancio di una società in evoluzione verso la democrazia liberale e i processi della industrializzazione, oggi fa i conti con una enfatizzazione del suo potere, al punto di corrodere ed estenuare se stessa. La pagina più emblematica di questa nuova congiuntura la scrisse Musil negli anni trenta: […] “l’abitante di un paese ha almeno nove caratteri: carattere professionale, carattere nazionale, carattere statale, carattere di classe, carattere geografico, carattere sessuale, carattere conscio, carattere inconscio, e forse anche privato, li riunisce tutti in sé, ma essi scompongono lui, ed egli non è che una piccola conca dilavata di quei rivoli, che v’entrano dentro e poi tornano a sgorgare fuori per riempire insieme ad altri ruscelletti una conca nuova. Perciò ogni abitante della terra ha ancora un decimo carattere, e questo altro non è se non la fantasia passiva degli spazi non riempiti; riempiti; esso permette all’uomo tutte le cose meno una: prender sul serio ciò che fanno i suoi altri nove caratteri e ciò che accade di loro; […]”3. Dunque: l’uomo può tutte le cose, eccetto quello di prendere sul serio la professione e la sua identità.
2. I difetti attuali del sapere civile e la loro radice prossima
I pregi e gli effetti benefici del sapere moderno sono tanti e cospicui, tuttavia i percorsi formativi della competenza, della professionalità e dell’identificazione personale mostrano alla maggior parte oggi la loro carenza.
a. Un primo aspetto riguarda la legittimazione teorica di un sapere formale, grazie al quale si può interloquire su un argomento con autorevolezza. Ebbene quella giustificazione risiede nei processi stessi con cui si arriva a quella competenza, ma quei processi formativi sono stati istituiti e vengono regolati in proprio dalla omologazione professionale da chi è addetto ai lavori. Di rovescio, non è possibile intervenire con competenza su una questione che non fa parte della propria professionalità. In compenso, è possibile intervenire autorevolmente su tutto, purché si dichiari di farlo entro i limiti del punto di vista della propria qualificazione professionale. Il limite sta nella chiusura formale dei processi cognitivi tra le pareti del proprio ambito, estranea ai legami della coscienza effettiva con i temi generali del senso e la mancanza di uno sguardo complessivo sul tutto, sul senso dell’evento nel quale sono coinvolti più soggetti e circostanze. “Questi limiti rappresentano al presente un prolungamento degenerato del modello humboldtiano di università, un’equivalenza formale di tutti i saperi razionalmente ammessi, autoreferenzialità insindacabile della specializzazione dipartimentale”.
b. Alla ristrettezza nel definire i criteri e la valutazione della competenza, corrisponde l’avanzato fenomeno della professionalità che vale nella realtà come titolo di identificazione esistenziale. La pratica professionale secondo le proprie competenze sopperisce a quella visione d’insieme che una cultura specialistica registrata intorno ad un sapere di alta sofisticazione analitica e tecnica non ha. Nell’attuale congiuntura ‒ di alleggerimento del sapere che concerne il senso e di debole riconoscimento pubblico dell’identità umana effettiva (e affettiva) del citoyen ‒ il peso dell’identificazione professionale è destinato a crescere. Questo però non è casuale, ma va, al dire di P. Sequeri, secondo l’accezione di professione elaborato da M. Weber: ossia dal “compromesso epistemologico della democrazia formale, che sottrae formalmente ad ogni professione specialistica il potere di istituire i fondamenti del sapere comune, ma sancisce l’inappellabile autoreferenzialità dei suoi principi nella costituzione dell’ethos pubblico del sapere4.
3. La situazione di stallo
La volontà condivisa di porre mano a questi difetti è frenata dal rischio duplice di cadere nell’ideologia o fondamentalismo oppure nell’anarchia nichilistica. In questa situazione di stallo conta poco reintrodurre di autorità la teologia nelle Università, conta invece affrontare cosa sta a monte. Sequeri affermava a questo proposito che “In questa congiuntura di rischi, il legame fra Università dei saperi e democrazia dei poteri è strettissimo e nevralgico. Metterci mano tocca equilibri assai più strategici di quelli che appaiono nell’odierno dibattito (si fa per dire) sulla scuola e sulle scuole. Il processo di superamento umanistico della logica universitaria dei dipartimenti, in ogni caso, va anzitutto rigorosamente approfondito e coltivato dentro l’università, non fuori”. La fase di stallo attuale favorisce di fatto la logica mercantile ed enfatizza l’Homo consumens5, strappa le briglie al conduttore e agevola il volo libero dello sciame.
Z. Bauman è l’esempio più conosciuto di un intellettuale che argomenta e dibatte sulla “decadenza degli intellettuali”6, il cui ruolo è passato dall’era moderna a quella postmoderna da “legislatore” a “interprete”. Così, se la modernità era l’era della certezza, la postmodernità è quella dell’incertezza. Vi è stato in parte un venir meno della fiducia in coloro che in passato teorizzarono la superiorità europea. “L’atteggiamento pessimistico e difensivo degli intellettuali, che si presenta come la crisi della civiltà europea, diventa comprensibile se visto sullo sfondo delle difficoltà che gli intellettuali incontrano ogni volta che tentano di svolgere il loro ruolo tradizionale; vale a dire il ruolo che, con l’avvento dell’era moderna, essi furono addestrati ‒ e si addestrarono ‒ a svolgere. Quel che appare alla nostra consapevolezza come la crisi della civiltà, o il fallimento di un determinato progetto storico, è la crisi autentica di un particolare ruolo e la corrispondente esperienza della ridondanza della categoria che si specializzò in tale ruolo7. La società dei consumi, del resto, ha trasformato i valori in merci: è il mercato ad assolvere il ruolo di giudice, a imporsi come guida, a creare consenso. Gli intellettuali sono stati derubati del loro territorio e della loro autorità. E quello che oggi appare come la crisi della civiltà, o il suo fallimento, è in realtà, la crisi della classe intellettuale. “Coloro che un tempo scrutavano il mondo come un campo che doveva essere coltivato dall’Europa, armata com’era della Ragione, tendono oggi a parlare del progetto «fallito» o «ancora incompiuto» della modernità”8.
4. Cosa fare al presente?
Il carattere nevralgico delle implicazioni prevedibili etico-umanistiche di lunga portata della istituzione universitaria deve interpellare responsabilmente anche la coscienza credente dei teologi. I quali, lasciando da parte le inutili teorie del dialogo tra fede e saperi, o di presuntuose ambizioni di una teoria filosofica unificata, si potrebbe, ad esempio, pensare ad una sensibile convergenza dei credenti e non credenti ‒ ovvero degli uomini di buona volontà che sono la maggioranza in entrambi i campi ‒ “sul progetto della costituzione di connettivi umanistici capaci di mettere in rete ogni ambito di specializzazione universitaria o professionale”. I cristiani possono trovare alla duplice eredità, di cui ho scritto nel punto 2 de “Cultura civile e teologia (/6): la teologia come scienza”.
1 Il Ministro della Pubblica Istruzione, Gabrio Casati, assieme al cugino Gabrio Piola (fondatore del Politecnico), in gioventù apparteneva a quella generazione che diedero vita in Milano agli oratori, ancor prima di San Giovanni Bosco. Divenuto poi avvocato si trovò vicino ai “cristiani liberali” come li chiamava D. De Sanctis. Si veda di G. Barzaghi, Don Bosco e la Chiesa Lombarda, Glossa, 2004, Capitolo V, paragrafo 5, pp. 142-154.
2 Questa nuova figura non è del tutto nuova nella cultura civile liberale: grazie a B. Croce essa raccoglie ancora numerosi estimatori.
3 R. Musil, L’uomo senza qualità, 1930-1933, cap. 8.
4 P. Sequeri, in http://www2.units.it/etica/2001_2/pepom09.html
5 Z. Bauman, Homo consumens. Lo sciame inquieto dei consumatori e la miseria degli esclusi.
6 Z. Bauman, “La decadenza degli intellettuali”, Bollati Boringhieri
7 Op. cit., p. 143
8 Op. cit., p. 142