Da Instrumentum Laboris a Impedimentum Laboris? Il modello moderno (tridentino) resta prevalente
Un passo della introduzione dell’IL24 suona premonitore: “«non è un documento del Magistero della Chiesa, né il report di una indagine sociologica; non offre la formulazione di indicazioni operative, di traguardi e obiettivi, né la compiuta elaborazione di una visione teologica». Purtroppo questa serie impressionante di “negazioni”, che già appariva nell’IL23 ha profondamente condizionato il tenore della “relazione di sintesi” che abbiamo letto nell’ottobre 2023. Rispetto a quel testo, allora fu chiaro, occorreva un autentico cambio di passo, sia sul piano del metodo, sia sul piano dei contenuti. Occorreva elaborare un testo che “servisse” – come deve ogni “strumento” – a promuovere un confronto che ad ottobre 2024 potesse pervenire a deliberazioni sinodali capaci di riforma. Il testo che orienta alla discussione, e che dovrebbe servirla, mi sembra rimanga largamente segnato da una “retorica della gioia” che in molti casi non ha il coraggio di affrontare le questioni, e si limita a accennarle in modo assai generico, senza impostarne un esame accurato. Faccio alcuni esempi.
a) La struttura del documento si divide in 4 parti: fondamenti, relazioni, percorsi e luoghi. Nella prima parte si tratta di riprendere in modo strutturale il “compito sinodale”. Essendo una parte generale, ha una sua struttura forte, chiara, ma astratta. Appena di avvicina a questioni concrete, sulle quali occorrono deliberazioni, non orienta, ma resta vaga. Ovviamente il tema bruciante, e duplice, della “pluralità dei soggetti” e delle “differenze tra soggetti” deve trovare un equilibrio storicamente nuovo. Quando si parla di “valorizzazione della donna”, il testo elabora anzitutto una “teoria della differenza” (non della eguaglianza) che recupera solo in un secondo momento, subordinandola a due fattori: all’ordinamento “così come è” e al rinvio delle questioni di accesso della donna al ministero del diaconato (con la riforma che comporta) ad un “dibattito da approfondire” (IL24, 17). Un escamotage neppure troppo nascosto per rimuovere la questione dal lavoro sinodale. Se lo “strumento” rimuove, non è uno strumento, ma un “impedimento”. Chiamiamolo per quello che è, non usiamo il linguaggio come alibi. La sinodalità diventa retorica se non è capace di parresia e usa solo la teologia “di corte” (vedute). La teologia deve aiutare ad orientare il dibattito verso soluzioni, non a costatare soltanto che ci sono problemi.
b) Una trattazione interessante è quella che viene dedicata alla “Iniziazione cristiana” (IL24, 22-26). Vi si trovano una serie di affermazioni importanti sulla correlazione tra contenuto e forma della iniziazione. Ma la traduzione che di questa parte molto ricca si propone, alla fine, è espressa in un linguaggio della devozione eucaristica, piuttosto che della formazione liturgica. La domanda di una “chiesa non burocratica” (che compare all’inizio della II parte sulle relazioni) significa domanda di una chiesa che sappia uscire dal modo “moderno” (ossia tridentino) che ha segnato la tradizione latina degli ultimi 500 anni. Di fronte a questa sfida non è sufficiente recuperare il ruolo della iniziazione cristiana, ma occorre affidare al linguaggio liturgico quella forza originaria che si esprime adeguatamente quando si propone così come al n.12: “rinnovamento della vita liturgica e sacramentale, a partire da celebrazioni belle,dignitose, accessibili, pienamente partecipative, ben inculturate e capaci di alimentare lo slancio verso la missione”: il rinnovamento non è senza riforma ed è frutto della riforma dei riti. E’ il coraggio di una riforma compiuta a potercelo permettere, purché se ne abbia tutta la consapevolezza e non ci si rifugi nel linguaggio retorica di una “eucaristia culmen et fons” che significa tutto e nulla. E’ un modo elegante per uscire dall’imbarazzo, ma non per proporre soluzioni.
c) Anche la coraggiosa riflessione sul modello di “autorità” che si utilizza nella Chiesa, e che implica un modo di ripensare l’esplicazione della “gerarchia” offre pagine importanti, come premessa di un confronto serio ad ottobre, ma rilegge le questioni in un orizzonte ancora troppo “moderno” (o tridentino). Che i processi decisionali condivisi siano una questione seria, non ha bisogno di essere dimostrato. Il n. 70 mi pare che fotografi molto bene la questione quando dice che l’autorità dei Vescovo è inalienabile e nello stesso tempo non è incondizionata. Ma quale è la soluzione proposta? Sembra una soluzione nominalistica: siamo sicuri che correggere la espressione “consultivum tantum” (giudicata apertamente come errata) con non so quale altra espressione assicurerà la non opposizione tra deliberativo e consultivo? Si deve notare come sul tema la teologia ha lavorato e si è espressa, orientando il lavoro. Diversamente da come è accaduto per altri temi.
Ho esaminato solo alcuni pochi casi. Sono però esempi sufficienti a testare un documento che resta ancora troppo “sulle sue”: certamente in alcuni ambiti ha segnalato linee di lavoro utili, che saranno parte del compito della Assemblea di ottobre. In altri ambiti, tuttavia, la Assemblea potrà “lavorare” non grazie, ma nonostante l’Instrumentum. Che resta segnato da ciò che non è piuttosto che da ciò che è. Come era già chiaro fin dalle sue prime righe e come forse era inevitabile che fosse. Una chiesa che voglia essere sinodale, ma che non sappia uscire dal modello burocratico inventato dal Concilio di Trento e dalla sua recezione moderna, mi pare un paradosso dal quale dovremo uscire. Con tanto lavoro e senza impedimenti.
Molto interessanti le osservazioni del dott. Griillo. Purtroppo penso che sia molto difficile che a ottobre vengano elaborate deliberazioni sinodali capaci di riforma. Forse neppure papà Francesco ha il coraggio o la voglia di metterle in essere.