Dall’impedimentum sexus all’impedimentum ecclesiae? Una evoluzione del magistero ecclesiale


ministerodonne

Nel commento dell’altro ieri (che si può leggere qui) all’articolo di Marinella Perroni del 6 marzo scorso, apparso su “La Lettura” del Corriere della Sera,  riprendevo alcuni pensieri della teologa e ne svolgevo brevemente alcune implicazioni. Vorrei tornare su un passaggio del testo, perché offre un ambito di riflessione assai importante per una pacata evoluzione della dottrina ecclesiale intorno al ministero femminile. Parto una affermazione di Perroni, da cui traggo una serie di considerazioni decisive in vista di una valutazione adeguata del soggetto femminile come titolare di una autorità formale all’interno della Chiesa cattolica.

Le due formulazioni del magistero ecclesiale, del 1994 e del 1998, richiamate opportunamente nell’articolo, sono del tutto indicative di un approccio alla questione che così subisce un grande mutamento argomentativo. Cito qui come vengono riportate da Perroni:

“«Dichiaro che la Chiesa non ha in alcun modo la facoltàdi conferire alle donne l’ordinazione sacerdotale e che questa sentenza deve essere tenuta in modo definitivo da tutti i fedeli della Chiesa». Nel 1998 Ratzinger non farà che confermare la linea: la sua affermazione che il sacerdozio «è una realtà che precede la volontà della Chiesa, una volontà precisa del Signore stesso e la Chiesa non può far altro che obbedire nell’obbedienza della fede», creerà però un certo sconcerto tra molti teologi per i quali la struttura ministeriale della Chiesa non è di diritto divino, ma un portato delle epoche storiche.” (p.5)

Ci troviamo qui di fronte ad una duplice formulazione ufficiale, nella quale balza all’occhio che la esclusione della donna dal ministero (sacerdotale) è guadagnata negativamente, non positivamente. Vorrei fermarmi qui proprio su questo punto, che apre uno stile nuovo, diverso, con nuove possibilità e nuovi problemi del linguaggio magisteriale sul ministero femminile.

Ministero e donna nella storia

Se guardiamo alle argomentazioni con cui la teologia ha riflettuto sulla relazione tra ministero e donna possiamo trovare almeno tre punti di evidenza su cui si sono concentrate le categorie sistematiche. In primo luogo la esclusione della donna da ogni ministerialità ecclesiale, teorizzata da Tertulliano; poi una parziale ammissione da parte di Tommaso d’Aquino, mediante la rigorosa distinzione tra “ambito privato” (che può ammettere una certa ministerilità femminile) e ambito pubblico (che la esclude). Infine il modello nuovo di Giovanni XXIII, in cui uno dei “segni dei tempi” che nel 1963 viene riconosciuto è l’entrata della donna e della sua dignità nello spazio pubblico. Si tratta di tre passaggi che segnano rispettivamente le origini nel I millennio latino, l’inizio del II millennio scolastico e la soglia pastorale sul III millennio.

La differenza tra ministero e ministero sacerdotale

A questo bisogna aggiungere una ulteriore distinzione, ossia la esclusione della donna da “ogni ministero” e la ammissione a ministeri “non sacerdotali” (ossia non legati al “conficere sacramentum” che caratterizza il sacerdote fino al Concilio Vaticano II). Se in Tertulliano e in Tommaso la esclusione o la ammissione della donna al ministero riguardava il battesimo, oggi il discorso riguarda più in generale una accezione ampia di ministerialità, che non si identifica né con “ministero sacerdotale” né con il “ministero ordinato”. Queste tre categorie distinte (ossia ministero, ministero ordinato e ministero sacerdotale) contribuiscono anche oggi a rendere i discorsi sulla relazione con il sesso femminile talora vaghi e talora equivoci.

Il precedente di Spiritus Domini e la argomentazione ecclesiale

Un dato incontrovertibilmente nuovo e recentissimo (2021) è costituito dal MP Spiritus Domini, con il quale, per la prima volta nella Chiesa cattolica, almeno dopo Tertulliano,  si supera la “riserva maschile” al ministero, e lo si fa per un incarico, per un “ufficio”, che ha rilevanza e autorità formale, pubblica e comunitaria. Questo  significa che la argomentazione che storicamente era stata prevalente e decisiva almeno per quasi un millennio – ossia il “defectus auctoritatis” attribuito alla donna sul piano antropologico, sociologico e implicitamente anche teologico – non è più utilizzabile nella argomentazione magisteriale. Non a caso questa svolta era stata preparata dalla Lettera Apostolica Ordinatio sacerdotalis. In che modo?

Dall’impedimentum sexus all’impedimentum ecclesiae?

Torniamo ora alla argomentazione delle due espressioni citate da Perroni. Nella prima, Giovanni Paolo II dichiara una “mancanza di autorità”, della Chiesa e del papa, di fronte ad un “assetto ministeriale dato”. Che la chiamata al ministero sacerdotale venga riservata ai maschi (e non estesa anche alle donne) costituisce un punto su cui non si dà alcun “segno dei tempi”: i tempi non danno segni sul sacerdozio e i segni non riguardano questo assetto sacerdotale. Ma qui, si deve notare, non si dice nulla del contenuto, ossia della donna in rapporto al ministero, ma si parla solo della “forma ecclesiale dell’esercizio dell’autorità”. Il pronunciamento riguarda un “impedimento” che non riguarda una caratteristica della donna, della sua vocazione, della sua antropologia, della sua qualità simbolica o ecclesiale, ma solo l’esercizio della autorità ecclesiale. In modo più esplicito, ma sulla medesima linea, si esprime anche la espressione di 4 anni dopo, formulata da J. Ratzinger: se il sacerdozio è una realtà che precede la Chiesa, la Chiesa non ha alternativa alla obbedienza al Signore. Qui, in modo ancora più chiaro, non si distingue tra “sostanza dell’antica dottrina del depositum fidei” e “formulazione del suo rivestimento”. E si sovrappone la forma storica del sacerdozio all’oggetto della fede e della obbedienza. Per questo l’impedimentum, formalmente, non è più definito dal “sesso”, ma riguarda l’autorità della chiesa. E’ la autorità ad essere impedita, non un suo oggetto.

Equivoci sulla sostanza e irrilevanza dei segni dei tempi

Con questa argomentazione negativa, che sposta l’impedimentum dalla “materia” alla “forma”, accadono una serie di fenomeni sistematici di grande rilievo. Provo qui a farne breve rassegna:

a) Si potrebbe pensare che la intenzione del documento del 1994 fosse quella di dispensare la Chiesa da un dibattito sul contenuto. Se una “dichiarazione di autorità” dice che la Chiesa “non ha autorità su un certo tema”, perché può solo continuare “come sempre si è fatto” e che in questo consiste la sua obbedienza al Signore, questo non impedisce la esigenza, non tacitabile, di “dare ragione” di questa mancanza di autorità. Una teologia solo d’autorità, che voglia negare alla chiesa una autorità, sarebbe una grave involuzione della tradizione, oltre che un modo di argomentare con profili contraddittori.

b) L’uso del termine “sostanza”, nella recente ripresa delle affermazioni ufficiali su Ordinatio sacerdotalis, si presta a diversi equivoci. Anzitutto per il fatto che si pretenderebbe di desumere che il “sesso maschile” faccia parte della sostanza indisponibile del ministero sacerdotale. Ma questa è una affermazione che riguarda il contenuto, che non è coperta dal OS, la quale resta solo sul piano della forma. Se poi si pretendesse di dimostrare che ciò di cui Gesù non ha mai parlato esplicitamente può essere gestito dalla Chiesa in modo molto più rigido di ciò di cui Gesù ha esplicitamente parlato, questo sarebbe sul piano sistematico un azzardo piuttosto rischioso. Il riferimento alla “sostanza del sacramento”, infatti, è stato usato, nella storia non solo per “negare” il potere della Chiesa, ma per “affermarlo”. L’esempio più tipico è quello della “comunione sotto una sola specie”. Il Concilio di Trento afferma la possibilità di comunicarsi “ad una sola specie” invocando la differenza tra sostanza del sacramento e il suo uso. E così può dire che non fa parte della sostanza dell’eucaristia l’accesso di tutti sia al pane che al vino. Ma questa valutazione legittima del Concilio di Trento può avvenire nonostante il fatto che Gesù dica esplicitamente “mangiate” e “bevete”. Viceversa sulla esclusione della donna dal ministero Gesù nulla ha detto, ma tale esclusione dovrebbe essere ritenuta sostanziale per il sacramento dell’ordine o quanto meno per presbiterato ed episcopato.

c) Qui si deve notare che la forma classica con cui si è realizzata sul piano sistematico questa esclusione non ha la forma di una esclusione sostanziale. Infatti il modo è quello conseguito dall’elencazione di una serie di “impedimenti”, di cui il primo è quello del “sesso”. E’ una circostanza, non una sostanza, ad impedire la ordinazione delle donne come dei minori e degli incapaci, degli schiavi e dei figli naturali, degli assassini e dei disabili. Il passaggio da una logica “circostanziale” ad una logica “sostanziale” è introdotto nella argomentazione ecclesiale dal Codice di Diritto Canonico del 1917.

d) Infine, nel “passo avanti” (o “passo di lato” come lo chiama Perroni) costituito dalla caduta della riserva maschile ai ministeri istituiti in Spiritus Domini accade un fatto di grande rilievo: ossia una logica non formale, ma sostanziale, supera una “riserva” che aveva potuto essere riconosciuta come “venerabile”, ma che non è necessariamente “veneranda”. Questa differenza tra “possibile” e “necessario” apre precisamente lo spazio ad una riflessione sistematica diversa dalla riflessione storica, che R. Guardini identificava proprio nella differenza di “ciò che deve essere” da “ciò che è stato”.

Il sesso femminile tra impedimento e sostanza

In conclusione, lo sviluppo del dibattito sulla relazione tra donna e ministero si segnala per una modificazione profonda delle categorie in uso nella argomentazione teologica. Potremmo dire: non solo il fatto della riserva maschile, ma come essa viene motivata è importante per capirne la forza o la fragilità:

a) Il concetto di “impedimentum”, che storicamente ha funzionato come delimitazione delle possibilità della Chiesa di ordinare determinati soggetti, non ha mai avuto natura “sostanziale”, ma “circostanziale”. E trovava il suo punto di forza su definizioni dei soggetti stessi, basate su categorie antropologiche e sociologiche, che di per sé sono soggette al mutare dei “segni dei tempi”. La Chiesa non si è mai impegnata nel difinire dogmaticamente né “figlio naturale”, né “disabile”, né “schiavo” e ha accettato che queste nozioni possano cambiare nella storia. Forse questo non è vero anche per la categoria “donna”?

b) La pretesa di risolvere la questione per via “sostanziale” è stata assunta dal Codice di Diritto Canonico, a partire dal 1917, ma subisce oggi una duplice limitazione, perché da un lato pretende di estendersi a tutto intero il ministero ordinato (senza distinguere diaconato da presbiterato ed episcopato, come invece fa OS) e dall’altro per analogia si è estesa all’intero quadro dei ministeri ecclesiali, pensando la riserva maschile come sostanza di ogni ministero ecclesiale. Con Spiritus Domini questa normativa subisce una revisione profonda, proprio di carattere “sostanziale”.

c) La trasformazione dell’impedimentum sexus in impedimentum ecclesiae costituisce una formalizzazione che, senza entrare direttamente sul piano del contenuto, tende ad escludere che, sul piano dell’esercizio della autorità femminile, la Chiesa possa fare esperienza dei “segni dei tempi”. Ma questa esclusione sostanziale viene motivata solo formalmente, per autorità. Ed è questa logica autoimplicativa del documento – “per autorità la Chiesa esclude di avere autorità” – a renderlo non del tutto adeguato alla domanda a cui vorrebbe rispondere.  Il passaggio dalla logica dell’ impedimento alla logica della sostanza, realizzato però soltanto sul piano formale, resta una strada troppo stretta per costituire una risposta davvero conclusiva.

Alla domanda che sorge dalla storia e dalla coscienza non si può rispondere con una argomentazione che escluda per autorità la rilevanza della storia e della coscienza. La provocazione che viene da Pacem in terris, quasi 60 anni fa, resta ancora la voce più potente del magistero recente sul tema “donna e ministero” e sulle forme pubbliche e comunitarie con cui è legittimo, senza poter essere semplicemente vietato, riconoscerne la dignità e la autorità. Il dono definitivo di Dio, che la Chiesa riceve e n0n pone, non implica necessariamente la obbligazione di assumere come definitiva una sua forma storica. La confusione sistematica tra questi due livelli costituisce lo spazio per un avanzamento teorico e pratico, di cui non solo la donna, ma anzitutto la Chiesa ha urgente bisogno.

 

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