De foeminae potestate: Tertulliano, Tommaso d’Aquino e papa Giovanni XXIII


tertullianidebaptismo

Tutto è cominciato con il libro Il ministero ordinato  (Queriniana, 2002) di E. Castellucci, il bravo teologo e arcivescovo di Modena, che in questi mesi utilizzo per il corso sul “ordine e ministeri”, presso la facoltà teologica del Marianum, in Roma. Egli, infatti, nel presentare la “sacerdotalizzazione” del ministero ecclesiale, fa di Tertulliano uno degli autori decisivi di questo passaggio tanto importante. In particolare risulta di estrema rilevanza il testo del De Baptismo, in cui l’autore formula, contemporanemanente, a proposito del ministro del battesimo, una duplice affermazione: ministro e “sommo sacerdote” è il vescovo, ma possono battezzare anche presbiteri, diaconi e eccezionalmente anche laici, non però le donne. Più di mille anni dopo, S. Tommaso d’Aquino, nella Summa Theologiae, riformula la prospettiva, modificando sia la competenza episcopale, sia il modo di temperare la esclusione delle donne. Altri 700 anni dopo Giovanni XXIII modifica ulteriormente il “criterio-chiave” con cui Tommaso aveva superato Tertulliano. Vediamo analiticamente i tre passaggi, che possono insegnarci che cosa è la tradizione ministeriale, quale servizio ad essa possa rendere la teologia e come possano essere valorizzate oggi le donne nel servizio ecclesiale.

a) Tertulliano e la esclusione delle donne dal ministero del battesimo

Ecco il testo del De Baptismo, cap. 17. 

Superest ad concludendam materiolam de observatione
quoque dandi et accipiendi baptismi commonefacere. Dandi
quidem summum habet ius summus sacerdos, si qui est episcopusdehinc presbyteri et diaconi, non tamen sine episcopi auctoritate, propter ecclesiae honorem quo salvo salva pax est.[2] alioquin etiam laicis ius est: ‘quod enim ex aequo accipitur ex aequodari potest; nisi episcopi iam aut presbyteri aut diaconi vocabuntur discentes domini: id est, ut sermo non debet abscondi ab ullo, proinde et baptismus segue dei census ab omnibus exerceri potest’. sed quanto magis laicis disciplina verecundiae et modestiae incumbit cum ea [quae] maioribus competat, ne sibi adsumant [dicatum] episcopi officium. episcopates aemulatio schismatum mater est. omnia licere dixit sanctissimus apostolus sed non omnia expedire. [3] sufficit scilicet in necessitatibus [ut]  utaris sicubi aut loci aut temporis aut personae condicio compellit: tunc enim constantia succurrentis excipitur cum urguetur circumstantia periclitantis, quoniam reus erit perditi hominis si supersederit praestare quod libere potuit. [4] petulantia autem  mulieris quae usurpavit docere utique non etiam tinguendi ius sibi rapiet, nisi si quae nova bestia venerit similis pristinae, ut quemadmodum illa baptismum auferebat ita aliqua per se [eum] conferat. [5] quod si quae Acta Pauli, quae perperam scripta sunt,  exemplum Theclae ad licentiam mulierum docendi tinguendique defendant, sciant in Asia presbyterum qui eam scripturam construxit, quasi titulo Pauli de suo cumulans, convictum atque confessum id se amore Pauli fecisse loco decessisse. quam enim fidei proximum videtur ut is docendi et tinguendi daret feminae potestatem qui ne discere quidem constanter mulieri permisitTaceant, inquit, et domi viros suos consulant.

Questo testo di Tertulliano è rilevante per due motivi: non solo perché per la prima volta applica in latino la terminologia del “sommo sacerdote” al vescovo, riservandogli la pienezza della competenza sul battesimo, ma anche perché esclude recisamente ogni possibilità che il battesimo possa essere amministrato da una donna. L’elenco dei “ministri” è chiuso alla donna e comprende, in ordine, vescovo, presbitero, diacono e laici. Ogni possibilità di attribuire una “docendi et tinguendi feminae potestatem”  sarebbe un vero e proprio tradimento di S. Paolo, che è assunto qui come autorità somma e inaggirabile.

b) S. Tommaso d’Aquino e la differenza tra pubblico e privato

Più di 1000 anni dopo, S. Tommaso, affrontando il tema “Se la donna possa battezzare” in quel piccolo gioiello che si trova in S.Th. III, 67,4 (qui nella immagine)

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ritorna al testo di Tertulliano ed elabora una rilettura diversa della tradizione ministeriale del battesimo. Esaminiamola nel dettaglio:

a) Nel “videtur quod” Tommaso presenta le tre posizioni “negative” circa la possibilità del battesimo da parte di una donna. La prima posizione è quella del Concilio di Cartagine (398) che riprende la posizione di Tertulliano. La seconda è frutto di un ragionamento: il battesimo spetta a chi esercita la autorità, come il sacerdote in cura d’anime, e non alla donna. Alle prime due posizioni sono collegate espressioni tratte da Paolo. La terza si fonda invece sulla esegesi offerta da S. Agostino del vangelo di Nicodemo: l’acqua della “rinascita” ha funzione di “utero femminile” e così il ministro deve avere per forza identità maschile.

b) A fronte di queste posizioni negative, nel sed contra Tommaso allega soltanto una posizione, autorevole, di papa Urbano, che stabilisce la possibilità di battesimo da parte di una donna, “necessitate instante”, ossia in caso di necessità.

c) Il corpus dell’articolo è, come sempre, il più elaborato. E procede da due affermazioni-chiave: colui che battezza “principaliter” è Cristo (secondo Gv 1); e in Cristo non vi è più né maschio né femmina (secondo Col 3). Ne deduce che “se un maschio laico può battezzare, allora anche una donna”. Ma poi aggiunge, secondo 1Cor 11, la donna non deve battezzare, se vi è un uomo; né un laico se vi è un chierico; né un chierico, se vi è un sacerdote. Ma il sacerdote può battezzare anche se è presente un vescovo, poiché questo pertiene al compito del sacerdote. E’ evidente, perciò, che pur tenendo come criterio la gradualità riaffermata nella seconda parte del corpus, nella prima parte Tommaso libera il ministero dalla sua forma rigida. Il riferimento a Tertulliano è esplicito anche nella “elencazione delle competenze”.

d) Nelle “confutazioni” delle tre posizioni contrarie, tuttavia, Tommaso aggiunge due prospettive ulteriori. Nei primi due casi, infatti, egli spiazza la ragione della esclusione, introducendo una distinzione tra “forma pubblica” e “forma privata” dell’insegnamento e del battesimo. In altri termini, le ragioni del divieto sussistono, ma riguardano la forma solenne e pubblica del sacramento. Nel caso di una “necessità immediata”, il divieto non ha più ragione di sussistere. La terza argomentazione, tuttavia, distingue tra “generazione naturale” e “generazione spirituale”. Qui Tommaso paga un debito alla antropologia del tempo: egli sa – con la scienza del suo tempo – che nella generazione l’uomo è principio attivo, mentre la donna è mera passività. Nonostante questa lettura unilaterale, sul piano spirituale, egli afferma, né maschio né femmina agiscono “propria virtute”, ma “instrumentaliter per virtutem Christi”. Per questo il battesimo da parte di una donna sarebbe efficace anche al di fuori del caso di necessità, pur comportando una dimensione di peccato per essa e per i collaboratori.

Come è chiaro, Tommaso opera una rilettura sia della competenza episcopale, sia della esclusione femminile. Utilizza argomenti di autorità, ermeneutiche della scrittura e argomentazioni logiche, con passaggi di apertura assai delicati. Il riferimento cristologico opera una certa relativizzazione del divieto classico. Ma è evidente, tuttavia,  che questa riflessione assume, come dati quasi indiscutibili, due livelli di conoscenza “ovvii”, che restano come sullo sfondo, ma con un peso di autorevolezza assai grande:

– la comprensione fisiologica del maschile/femminile

– la comprensione sociologica del “ruolo privato” della donna

Potremmo dire che, nonostante la cristologia, la antropologia (di uomo/donna), la fisiologia (di maschio/femmina) e la sociologia (di pubblico/privato) collaborano a mantenere una drastica “differenza di autorità”. Solo il mondo tardo-moderno saprà superare questi limiti.

c) Giovanni XXIII e la apertura dello spazio pubblico ai soggetti femminili

Molti secoli dopo S. Tommaso, papa Giovanni XXIII ha scritto, nella sua ultima enciclica, Pacem in terris, nel 1963, un famoso passaggio, a riguardo del secondo dei tre “segni dei tempi”:

“In secondo luogo viene un fatto a tutti noto, e cioè l’ingresso della donna nella vita pubblica: più accentuatamente, forse, nei popoli di civiltà cristiana; più lentamente, ma sempre su larga scala, tra le genti di altre tradizioni o civiltà. Nella donna, infatti, diviene sempre più chiara e operante la coscienza della propria dignità. Sa di non poter permettere di essere considerata e trattata come strumento; esige di essere considerata come persona, tanto nell’ambito della vita domestica che in quello della vita pubblica.”

E poco più avanti, ricapitolando i tre “segni dei tempi” aggiunge:

“In moltissimi esseri umani si va così dissolvendo il complesso di inferiorità protrattosi per secoli e millenni; mentre in altri si attenua e tende a scomparire il rispettivo complesso di superiorità, derivante dal privilegio economico-sociale o dal sesso o dalla posizione politica.”

Questo disegno di Giovanni XXIII attraversa tutto il Concilio Vaticano II, nutre il tempo del post-concilio e arriva fino a Evangelii Gaudium, esattamente 50 anni dopo il Concilio. In tutto questo, però, non è centrale la pur necessaria “rivendicazione di diritti da parte di nuovi soggetti”, ma la ricchezza di una esperienza ecclesiale più grande. C’è Dio al centro di tutto questo: la possibilità di concepire Dio in modo più ricco e più alto, proprio grazie a questa integrazione di dominati, di emarginate e di oppressi. Nella storia la Chiesa trova nuove risorse di Vangelo.

d) Il compito del ripensamento attuale

Il superamento sia di una fisiologia semplicistica e distorta, sia di una sociologia pregiudiziale e unilaterale pongono oggi, in generale, alla ministerialità ecclesiale un compito di ripensamento e di riconoscimento del tutto urgente. La teologia ha elaborato le proprie categorie. Lo ha fatto tante volte.  Così, alle categorie originarie di Tertulliano, Tommaso ha sovrapposto una nuova coscienza delle distinzioni, recuperando sia un “primato di Cristo” rispetto alla differenza antropologica e fisiologica tra maschile e femminile, sia una differenza tra pubblico e privato, per recuperare una soggettività altrimenti esclusa. Ciò che il mondo degli ultimi 200 anni ha scoperto, ossia “l’ingresso della donna nella vita pubblica” supera in radice uno dei due argomenti portanti della soluzione di Tommaso, mentre la fisiologia, la biologia e la antropologia moderna ha provveduto a correggere le letture unilaterali della generazione e della sessualità. Tradurre la tradizione significa non ostinarsi su argomenti deboli, e recuperare gli argomenti più forti. Se la donna può “parlare in pubblico”, e senza chiedere il permesso, può anche esercitare il ministero. La correzione e la rimozione di un divieto è il modo per restare nella tradizione, in quella viva e sana, non in quella ferma e malata.  Il lavoro di mediazione tra “complessi di inferiorità” e “complessi di superiorità” – per usare la terminologia di Giovanni XXIII – ha bisogno di una argomentazione teologica di qualità, che sappia restare fedele a quella audacia e a quella lungimiranza con cui il pensiero credente si è mosso lungo i 2000 anni di tradizione cristiana. Solo così onoreremo la memoria di Tertulliano, di Tommaso e di papa Giovanni.

 

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