Dibattito su “Amoris Laetitia” (/4): Adulterio e atti impuri (di. P. Consorti)


consorti

 

Il dibattito suscitato dal testo di G. Meiattini si arricchisce di un altro tassello. Ad intervenire è Pierluigi Consorti, professore di Diritto canonico presso la Università di Pisa, che sul suo blog ha pubblicato un articolo molto interessante, in risposta al testo di G. Meiattini. Il suo testo (che in originale si trova qui ) merita di essere riportato integralmente, come prezioso contributo ad una discussione che non deve essere lasciata cadere e che oggi nella Chiesa non viene considerata con la attenzione che merita.

 

Adulterio e atti impuri: tra delitto e peccato

Prendo spunto da un recente scritto del prof. dom Giulio Meiettini, che è tornato a criticare Amoris laetitia puntando il dito contro il silenzio di questo documento verso adulterio e omosessualità (qui). A suo avviso, quel silenzio ha aperto la strada a successivi errori.

Vorrei soffermarmi solo sul tema dell’adulterio, che egli considera un “peccato cancellato con un colpo di silenzio”, vanificando così alcuni passi evangelici, fonti intoccabili della posizione assunta dalla Chiesa cattolica in ordine all’indissolubilità del matrimonio e alla morale sessuale. Questioni (infedeltà e omosessualità) che vengono trattate come se non fossero più peccati, ma ‘fragilità’, o ‘irregolarità’.

Un canonista che legge queste considerazioni non può fare a meno di domandarsi preliminarmente se l’adulterio, in quanto peccato, sia anche un delitto. La soluzione si trova velocemente: per la legge penale della Chiesa l’adulterio è anche un delitto solo se è commesso da un chierico, in quanto concubinario o scandalosamente in peccato contra sextum (can. 1395). Nel campo del matrimonio, si tratta di un inadempimento del patto con cui gli sposi hanno deliberato davanti a Dio e alla comunità di dare vita al permanente consortium toius vitae. Nel caso di adulterio, il coniuge innocente è invitato a perdonare l’infedele e ricostituire la relazione altrimenti corrotta; tuttavia, egli può chiedere la separazione, “a meno che non abbia acconsentito all’adulterio, o non ne abbia dato il motivo, o non abbia egli pure commesso adulterio” (can. 1152).

In termini giuridici, l’adulterio indica l’unione sessuale di uno dei due coniugi con una terza persona (non ha quindi nulla a che vedere con le convivenze extra matrimoniali). Un atto che può essere consumato una o più volte e non coincide necessariamente con una condizione permanente. Tuttavia, in termini morali lo spettro della fattispecie può essere più ampio, riferito cioè a tutte le forme di infedeltà ad una relazione che dovrebbe essere esclusiva. Si tratta di un’estensione accettabile delle parole di Dio “Non commettere adulterio” (Es. 20, 14; Dt. 5, 18), che nella tradizione cattolica sono state interpretate con un’accezione sessuocentrica, testimoniata dalla traduzione catechistica del comandamento con la formula “Non commettere atti impuri”. In questo modo, il sesto comandamento è diventato una sorta di raccoglitore delle possibili infedeltà connesse ad una relazione stabile, che vanno dall’adulterio in senso stretto, al divorzio, alla poligamia e alle libere unioni (ossia, relazioni affettive diverse dal matrimonio sacramentale), e comprendono anche tutte le pratiche sessuali non immediatamente riferibili all’atto procreativo svolto fra i due coniugi (quindi la masturbazione, la fornicazione, la pornografia, le pratiche omosessuali e l’uso di mezzi non naturali di regolazione delle nascite). Si tratta di un’interpretazione morale che non solo attribuisce natura peccaminosa a una serie di atti che di per sé non sono delitti, ma che omette di considerare infedele una relazione amorosa fuori dal matrimonio solo perché non si concretizza con atti sessuali.

Un’interpretazione dell’adulterio coerente con la lettera dei passi biblici suggerisce peraltro un’interpretazione molto più stretta. Persino Gesù è intervenuto su questo punto restringendo l’interpretazione rabbinica seguita dai farisei. Com’è noto, la società dell’epoca – e per molti secoli successivi – non considerava la donna un soggetto giuridico, perciò ammetteva la poligamia e quindi condannava la sola infedeltà della donna coniugata (o promessa sposa). Infatti l’uomo, anche se sposato, poteva sempre legittimamente intrattenere una relazione con una nubile o con una meretrice, purché non violasse una donna sposata (o promessa sposa). Il comandamento biblico originale (espresso con na’af) ha quindi un orizzonte più largo della sola sfera sessuale: da una parte riguarda la ‘proprietà della donna’, intesa come oggetto e non come soggetto; da un’altra parte richiama il valore della fedeltà ad un’alleanza relazionale: tra due sposi come con Dio. Per questa ragione nel caso di flagrante adulterio, anche l’uomo che aveva approfittato di una donna non libera, subìva la medesima condanna.

Com’è noto, Gesù però si oppose alla condanna a morte di un’adultera. Pur considerandola peccatrice, non l’accusò di alcun delitto e l’assolse dal peccato commesso. Gesù venne peraltro tentato dai farisei su un tema connesso all’adulterio, rispetto al quale intervenne in maniera molto chiara, così com’è stato tramandato dai Vangeli di Matteo e Luca. Quando i suoi contestatori gli domandarono se fosse lecito ad un uomo ripudiare una donna per qualsiasi motivo, Gesù negò ripetendo le parole di Dio in Genesi (1,27 e 2,24). Allora, i suoi contestatori gli opposero che Mosè lo aveva però permesso, sicché Gesù affermò che il ripudio non era mai lecito, salvo il caso di porneia (πορνεία: Mt. 19, 9): inizialmente tradotto un po’ semplicisticamente in italiano con fornicazione (e poi anche con ‘relazione illegale’, ‘concubinato’, ‘unione illegittima’, dimostrando la difficoltà connessa alla sua traduzione. Πορνεία significa infatti anche ‘incesto’, ‘prostituzione’ e pure ‘idolatria’). Disquisire sull’etimologia del termine greco riportato nei Vangeli non è tuttavia centrale, dato che Gesù non parlava quella lingua. Egli avrà probabilmente utilizzato l’espressione ebraica o aramaica, riferendosi forse a zenuth, che indicava il matrimonio fra persone della stessa parentela, che era vietato e quindi invalido (da qui ‘concubinato’ o ‘relazione illegale’), o forse avrà pensato al senso del na’af, che in Mt. 5, 28 gli fece dire che chiunque guarda una donna per desiderarla, ha già commesso adulterio nel suo cuore. Il desiderio (ἐπιθυμῆσαι) va inteso quale impeto di possesso, come nell’ebraico hamad(che si trova nel nono e decimo comandamento): ne deriva che l’adulterio, per essere tale, non ha bisogno di atti sessuali.

In sostanza, Gesù interpreta il comandamento antico dando almeno due indicazioni concrete: da un lato limita il ripudio ad ipotesi eccezionali, e dall’altro afferma che commette adulterio sia l’uomo che dopo aver ripudiato la moglie ne sposi un’altra, sia l’uomo che sposa una donna ripudiata, sia l’uomo che guardandola desidera possederla. Secondo la mentalità dell’epoca, la posizione della donna rimane estranea a questa relazione: ella ne è oggetto e non soggetto.

Bisogna considerare che i successivi traduttori cristiani operavano in una società ormai monogamica, perciò “coscienti della difficoltà presentata dalla radice na’af, scelsero il greco moikheneis [adulterare], allo scopo di sottolineare la responsabilità morale e giuridica dell’uomo che aveva rapporti con la donna d’altri. San Girolamo ha usato un verbo latino, moechari, che non è altro che un prestito dal greco: un termine gergale che designa l’azione di lasciarsi andare alle dissolutezze. Come si può notare, la somiglianza fra i significanti nasconde una grande divergenza di senso: mentre in greco il verbo è innanzitutto un termine giuridico, in latino appartiene al registro morale” (N. A. Chouraqui, I dieci comandamenti, Milano, 2001, p.162).

Tale trasposizione dal diritto verso la morale è la cattiva radice che sottostà al ragionamento che nel terzo millennio dom Meiattini ripropone ai suoi lettori, limitando la visione del peccato di adulterio alla sfera degli atti impuri e chiudendo l’interpretazione di Amoris laetitia nelle gabbie strette proposte da una teologia morale di stile catechistico. Lo spostamento dell’accento dall’adulterio alla sessualità emargina la fonte biblica ed enfatizza interpretazioni che col tempo hanno semplicemente distorto il senso salvifico delle Parole di Dio rivolte a uomini e donne sessuate, che vivono una dimensione carnale che Dio vuole iscritta nella fedeltà alla sua alleanza. Del resto, è noto che l’interpretazione cattolica dell’indissolubilità del matrimonio non è condivisa dalle altre Chiese cristiane, che ammettono – con sfumature diverse – la possibilità di interrompere la relazione matrimoniale, che per la Chiesa cattolica è un sacramento.

In termini di diritto canonico, la relazione matrimoniale è il patto/contratto con cui un uomo e una donna stabiliscono un consortium permanente, di cui tuttavia non sono padroni, dato che in ragione del sacramento il loro contratto è particolarmente stabile, unico e indissolubile. Il diritto canonico cura con ampiezza il tema dell’atto matrimoniale, considerandone forma, oggetto, impedimenti, condizioni e patologie giuridiche. Manca però di affrontare il tema del rapporto matrimoniale, che è il grande assente del diritto canonico. Il silenzio del diritto sul rapporto matrimoniale è paradossalmente interrotto proprio dall’adulterio, inteso come un fatto giuridico che può modificare la forma della relazione matrimoniale, senza però toccarne la sostanza. Ma andiamo con ordine.

Come già accennato, il diritto canonico offre una diversa soluzione pragmatica. Nel caso dei chierici, l’adulterio non può sussistere in senso stretto, dato l’obbligo del celibato, tuttavia il canone riserva uno spazio penalmente rilevante ai vari atti contra sextum, che come abbiamo visto raccolgono le varie ipotesi di atti impuri. Nell’ambito della vita matrimoniale, l’adulterio è circoscritto all’infedeltà coniugale in senso stretto. Nel primo caso, l’omissione degli obblighi prescritti produce una sanzione penale; nel secondo caso, permette la separazione dei coniugi, pur senza scioglimento del vincolo sacramentale.

Questa impostazione conserva l’adulterio nel novero dei peccati gravi, talmente gravi da ammettere che possano non essere perdonati dalla parte innocente. Al contempo, ne restringe la portata, dato che non sembra possibile far rientrare tutte le ipotesi di atti impuri nelle cause di separazione concepibili sotto il cappello dell’adulterio, che sussiste nel solo caso di infedeltà coniugale compiuta attraverso la consumazione di un rapporto sessuale. In tal caso, il diritto canonico costruisce un rimedio certamente inadatto a risolvere i problemi reali, in quanto il Codice resta impostato ad un eccessivo formalismo giuridico. Posto che la separazione sia una soluzione, essa è subordinata ad una serie di condizioni che la consentono solo quando essa possa essere addebitata alla colpa di uno solo dei due. “Con ciò si arriva alla conclusione che per il legislatore canonico due coniugi che si tradiscono vicendevolmente sono obbligati a continuare a vivere sotto lo stesso tetto, a mangiare alla stessa mensa e a dormire nello stesso letto, con quale risultato per il modello cristiano di matrimonio non è difficile immaginare” (P. Moneta, Il matrimonio nel nuovo diritto canonico, Genova, 1991, p. 201).

In altre parole, nel caso di infedeltà di uno solo dei due, il diritto canonico attribuisce ai coniugi un potere limitato di intervento nella loro relazione, rimettendo la decisione sulla prosecuzione della convivenza alla sola parte (apparentemente) innocente, che può graziosamente perdonare e quindi ristabilire l’unità. Non v’è chi non veda che tuttavia tanto l’unità quanto l’indissolubilità restano in sé stesse perennemente violate: giacché l’infedeltà relazionale non può non averle incrinate. Siamo quindi di fronte ad una finzione giuridica a senso unico, dato che nel caso di infedeltà reciproca nessuno dei due può perdonare l’altro. In questi casi non solo il matrimonio resta istituzionalmente saldo, ma i coniugi permangono nel dovere di convivere, come se nulla fosse accaduto.

Questa impostazione è paradossale anche alla luce del canone 1153, che prevede un diritto alla separazione quando uno dei due coniugi compromette gravemente il bene spirituale o materiale dell’altro o della prole, o comunque rende troppo dura la vita comune, per cause diverse dall’infedeltà. In tali casi è ammesso che l’incolpevole si allontani dall’altro, anche senza attendere la decisione dell’Ordinario.

I canoni relativi alla separazione presuppongono un diritto-dovere di salvaguardare la convivenza coniugale nei limiti della sua accettabilità reciproca. Nessuno può essere costretto a mantenere una relazione coniugale imperfetta. Ciò significa che la relazione matrimoniale rimane nella disponibilità dei coniugi; mentre il vincolo sacramentale segue strade proprie, indipendenti dalla relazione. Si tratta di un paradigma dogmaticamente perfetto quanto pragmaticamente inverosimile: significa che il sacramento perde ogni contatto con la sostanza della relazione.

In questo modo il diritto canonico non riesce ad esprimere il senso evangelico della relazione matrimoniale, che non può esuarirsi  nella manifestazione del consenso. Tutti i canoni si concentrano su questo momento, che miticamente diventa espressione persino dell’amore di Cristo per la Chiesa, e poi si disinteressano della vita concreta. La fine della relazione d’amore è a sua volta per sempre: senza rimedio. Di fronte ad una relazione fallita, i coniugi possono solo sperare che l’atto matrimoniale fosse nullo, perché se non lo fosse stato, restano legati per sempre. Senza alcuna prospettiva di rimedio. Paradossalmente, il sacramento li ha incastrati.

Per grazia di Dio, questo schema paradossale è stato faticosamente ripensato alla luce della vita concreta. Amoris laetitia è finalmente intervenuta modificando il paradigma solo istituzionale del matrimonio, collegandolo alla dimensione familiare e introducendovi il tema dell’amore: che per il diritto è altrimenti assente. Il silenzio dell’amore nel diritto canonico dovrebbe scandalizzare molto di più del silenzio dell’adulterio o dell’omosessualità.

Occorre ripensare il matrimonio canonico proiettandolo oltre la sola manifestazione del consenso. Non è accettabile immaginare un atto di volontà che in un momento solo condiziona tutto il tempo futuro. Il tempo della vita vale più dello spazio di un momento. In assenza di un’elaborazione più complessa, restiamo fermi ad una concezione solo istituzionale del matrimonio canonico, completata da una visione morale che lo vede tristemente un motivo di giustificazione delle relazioni sessuali. Grazie a Dio, per il popolo il matrimonio è il luogo dell’incontro di una relazione d’amore fra due persone, confermata davanti a Dio e agli altri uomini, non senza l’ausilio della gioia che viene dall’esercizio della sessualità.

Se il diritto canonico non saprà dare voce all’amore resterà schiavo di una ricostruzione dogmatica che non ammette fragilità o tentennamenti soggettivi. Il matrimonio resterà sempre più estraneo alla storia delle relazioni, privato della fatica di una costruzione continua di fedeltà ad un amore che possa durare nel tempo, perciò fedele ed esclusivo. Ciascun matrimonio riflette una dimensione antropologica, storicamente determinata. Fatta di spirito e carne. La forza della grazia sacramentale che impregna ex opere operato l’espressione della volontà matrimoniale, non ne condiziona necessariamente lo sviluppo successivo. La celebrazione del matrimonio è espressione della volontà dei ministri del sacramento di cui la Chiesa prende atto, dichiarandosi umilmente incompetente a sciogliere un vincolo che in effetti non le appartiene, perché di fatto rimane strettamente connesso alla capacità dei coniugi di conservare nel tempo l’alleanza d’amore intrapresa.

La comunità ecclesiale deve fare i conti con la sensibilità contemporanea che attribuisce al matrimonio la stabilità di una scelta fondata su un amore reciproco, rafforzata dalla grazia sacramentale, che tuttavia non può da sola supplire le mancanze personali. Queste ultime peraltro non possono essere pensate come forme di condanne senza appello ad una vita obbligatoriamente condotta insieme, come se l’amore perdurasse. L’indissolubilità è una proprietà essenziale del matrimonio sacramentale, non una condanna né un deterrente. L’adulterio è un peccato che può essere sanato. Perciò è consolante che il magistero si concentri sulla gioia dell’amore nella vita familiare senza indugiare sulla sua potenziale peccaminosità.

La strada aperta da Amoris laetitia, che coraggiosamente definisce certe relazioni ‘cosiddette irregolari’ e le iscrive in un quadro di accoglienza ecclesiale, discende dalla serena consapevolezza che davanti a Dio siamo tutti regolarmente irregolari. Il magistero che insisteva sulla prevenzione e punizione del peccato misurandolo attraverso l’enumerazione degli atti impuri ha fin qui certamente prodotto diminuzione dei matrimoni, crescenti separazioni e divorzi, oltre al ricorso pressoché unanime a convivenze prematrimoniali. I canonisti devono assumersi la responsabilità di immaginare regole in grado di esprimere la potenzialità di un amore che dura nel tempo, senza limiti, e senza condannare chi resta indietro.

Share