Disciplina del musicale e tradizioni civili/religiose: un paradosso


Al-Andalus.: Musica islámica.

La notizia della proibizione di ogni musica in ambito pubblico da parte del nuovo governo talebano in Afghanistan suscita sorpresa e sconcerto. Sarebbe una notizia quasi inconcepibile se la commisurassimo al “tappeto musicale” su cui vive una grande parte delle società occidentali.

A mia memoria l’unica proibizione della “musica in pubblico” che io ricordi era un “precetto” che ascoltavo da bambino, in casa, in occasione del venerdì santo. Se però studiamo la nostra tradizione, sia civile, sia religiosa, troviamo che il rapporto con il musicale è stato piuttosto travagliato, oscillando tra due posizioni: un sospetto generale nei confronti della potenza emotiva (sentimentale, erotica e intemperante) del musicale, e la esigenza di selezionare accuratamente le forme, i modi e le fonti della esperienza musicale.

La posizione estrema, non assente anche dalla tradizione occidentale e oggi rievocata dalla radicale decisione del governo afghano, è come uno schiaffo, che per essere compreso, nel suo accecamento fondamentalista, non deve essere ricondotto soltanto alle sue fonti islamiche – che d’altra parte non si presentano sempre con questa recisione – ma più in generale con il problema della relazione tra vita personale, vita sociale e vita religiosa.

Si dà infatti una esperienza naturale e artificiale della musica: cantano gli uccelli, canta l’uomo e l’uomo costruisce strumenti musicali. Queste distinzioni preziose, che attraversano tutte le tradizioni, hanno di per sé strutturato anche le reazioni dei filosofi, dei teologi, dei gruppi religiosi e delle nazioni civili. Si sono create così grandi discussioni non tanto sul “divieto del musicale”, ma sulle forme, sui limiti e sulle modalità del musicale nella educazione, nella vita civile e nella vita religiosa.

Ciò che colpisce, di fronte allo scandalo per la “proibizione universale” imposta dai talebani è la parallela “indeterminazione” del musicale nelle nostre società libere. Se l’orecchio che si rifiuta di percepire la musica, per non corrompersi, ci sorprende a giusta ragione, che cosa diremo dell’orecchio che non percepisce più le distinzioni tra suoni naturali, vocali e strumentali? I registri dell’organo, gli strumenti dell’orchestra, le voci maschili e femminili, le voci bianche, il “canto della terra” e l’armonia delle sfere che cosa dicono, oggi? Alla negazione di ogni emozione, per ragioni statali e religiose, possiamo davvero pensare di contrapporre la pura emozione indeterminata di ogni cittadino libero?

La trascuratezza verso la esperienza musicale accomuna, contemporaneamente, chi la rifiuta in tronco e chi la lascia scivolare sul livello di un tappeto sonoro indistinto. Uno stato etico e fondamentalista può proibire ogni musica perché sospetta o può accettare solo le musiche e i canti “etici” e “approvati”. Ma una forma civile e religiosa che lascia cadere il musicale a livello di “supporto”, di “colonna sonora” o di “tappeto”, che la “privatizza” come un ineffabile, commette l’errore speculare.

Uno dei linguaggi più potenti e più profondi che l’uomo conosca merita il rispetto che certamente esclude la generica proibizione, ma che altrettanto certamente esclude ogni svuotamento autoreferenziale. Una cultura musicale resta una sfida per la città e per la chiesa: la emancipazione del musicista dalla committenza – il fenomeno che si consuma a fine 700 tra Haydn, Mozart e Beethoven – ha cambiato non solo il senso dell’atto musicale, ma anche la relazione tra “funzione” e “musica pura”. La musica diventa, in qualche modo, “atto di culto”. Per questo può essere percepita come la grande tentazione o la grande redenzione.

Appartenere a questa storia chiede di giudicare il divieto talebano come il caso speculare della riduzione della musica alla emozione. La grande arte retorica del musicale ha ancora molto da dire, anche al nostro tempo, purché alla percezione della musica come  “traviamento del popolo” non contrapponiamo una fruizione solo emozionale, e ahimé consumistica, della musica.

Un quartetto d’archi di Mozart non è “musica da taxi”: se questo non è più evidente, i talebani non sono poi così lontani da noi. Arrivando all’estremo opposto, ci mostrano la nostra mancanza di comprensione e di esperienza, che arriva alla stessa irrilevanza del musicale, anche se per via contraria. Una musica “di intrattenimento” è una piccola cosa alla quale non dovremmo rassegnarci, né in città, né in chiesa. Solo così mostreremmo ai talebani che cosa si perdono dell’uomo e di Dio, censurando la musica come esperienza della comunità.

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