Diventare adulti


«L’immagine oggi dominante dell’adolescenza è di giovani tra 12 e 25 anni in piena crisi. Apatici, ripiegati su di sé, critici coi genitori: visione di un’adolescenza ‘canapè-selfie’ inquieta, e nessuno sa più esattamente a che età finisca questa fase di sviluppo». «Ma la generazione Z, nata dopo il 2000, ci mostra che quest’epoca è in via di superamento. Di colpo, nel 2018 emerge una mobilitazione civile tra i giovani, non più definiti adolescenti. Greta Thunberg, 15 anni oggi, attiva uno sciopero di studenti con centinaia di migliaia di partecipanti nel mondo. Di fatto, sembra soprattutto aver reso visibile un movimento iniziato anni prima, crescente mobilitazione di giovani per la sopravvivenza della specie: a margine della COP21, il movimento Conference of Youth aveva ad esempio mobilitato migliaia di giovani provenienti da molti paesi a difesa del clima. Molto precisa, la loro organizzazione includeva metodi cooperativi di lavoro e confronto ispirati alle Nazioni Unite, segno di inedita maturità. Fin da allora mostravano la volontà di compiere una transizione civile a fianco dei molti adulti impegnati in questo senso». «Come s’è passati da un’adolescenza seduta a una attiva? Anzitutto un ribilanciamento individuale: la coscienza di un pericolo ha prodotto un passaggio all’azione in luogo della depressione da impotenza disfattista (che si può fare contro il sistema?), di un dubbio ossessivo (c’è via d’uscita?) o di un rifiuto della realtà (tutto questo non esiste). Per farlo si son dovute dominare individualmente le angosce di morte, liberarle da sensi del dovere e di colpa divenuti paralizzanti. Eppure molti adulti vi restano imprigionati. Dove ha dunque trovato le risorse, questa generazione di adolescenti inondati dalla nascita da immagini di morte, onnipresenti in tv o Internet, inclusi gli attentati nel mondo e in occidente? Da dove è venuto questo impulso se non da un effetto di rovesciamento, di saturazione della morte diffusa su schermi e reti sociali che, dopo averli bloccati sul loro canapè, li ha infine messi in piedi dietro 15.000 scienziati internazionali per la difesa del vivente?» «Inoltre, questo impegno ha subito stabilito un senso di appartenenza che mancava. Ha offerto un’alternativa alla hubris e alla competizione a ogni livello: con atti cooperativi coordinati nel mondo per proteggere le generazioni future, reinventare modi di consumare, produrre, abitare, nutrirsi. Il senso di solitudine diminuisce, è di immediato beneficio psichico potere realizzarsi in ciò che ha senso qui e ora (il vegetarianismo, ad esempio, unisce atti individuali quotidiani in coerenza planetaria). La solitudine giovanile ha toccato apici e aggiunto ingredienti ai suicidi da sofferenza degli adolescenti d’inizio XXI secolo. Infine, in questo cammino dall’individuale al collettivo, ognuno cambia quanto può a suo livello, nel quotidiano percettibile, producendo un cambiamento per il gruppo. Il precetto di Gandhi “Sii il cambiamento che desideri vedere nel mondo” ispira questa forma di azione che molla la presa sull’altro, il controllo, la sorveglianza per centrarsi su di sé, consci che si diffonderà sugli altri se e solo se questo ‘centrarsi’ non è il fine primario». «Queste tre tappe – prendere coscienza della propria finitezza, modificare radicalmente il proprio rapporto con l’altro, agire su di sé per agire sul mondo – sono le condizioni per uscire dall’adolescenza senza impantanarsi in una passività adulta alienante». «È il volto inedito d’una gioventù che non può più permettersi di restare nell’adolescenza» [Marion Robin, «Greta Thunberg, symbole d’une jeunesse qui sort de l’adolescence», Le Monde, 30/07/2019, p. 26].
«Come nelle precedenti rivoluzioni tecnologiche, le macchine eseguiranno compiti ripetitivi, noiosi e talora rischiosi. Gli esseri umani potranno concentrarsi su compiti più innovativi, creativi, in lavori più d’équipe – la cosiddetta ‘intelligenza sociale’. Questo in teoria. In pratica, la rivoluzione digitale mette in competizione lavoratori e intelligenza artificiale su compiti più cognitivi, perché gli algoritmi sviluppano capacità impressionanti di trattare i dati. Vi sono compiti in cui l’essere umano conserverà un ruolo dominante: creatività, interazioni complesse, intelligenza sociale sono caratteristiche umane. Ma altri compiti più ripetitivi potranno essere svolti da algoritmi. Vi siamo esposti tutti, ma l’impatto professionale varia. I posti a maggior rischio di automazione nei paesi OCSE sono di qualificazione bassa, di persone con meno formazione professionale. Quelle che ne hanno più bisogno. Va adattato il sistema scolastico, data ai lavoratori occasione di sviluppo di nuove competenze in una formazione continua in tutta la loro vita professionale. Nei paesi OCSE quasi metà dei lavoratori ha competenze digitali molto limitate: sanno usare uno smartphone, navigare in Internet, ma non servirsi davvero della tecnologia digitale nell’attività professionale. Una competenza digitale minima è importante nei lavori di domani. Va fatto di tutto perché l’automazione del lavoro favorisca l’emancipazione umana: dare i lavori ingrati alle macchine, concentrarsi sugli ambiti più interessanti, i lavori più creativi. I mezzi sono l’altra sfida dell’automazione: finanziare la transizione digitale dei lavoratori è molto importante per ridurre tensioni potenziali e inquietudini legate alla rivoluzione digitale – finanziare la formazione continua, garantire protezione sociale ai lavoratori indipendenti delle piattaforme… Si dibatte poi sull’etica dell’intelligenza artificiale: come evitarne gli aspetti nocivi per certe categorie di lavoratori? Secondo gli esperti non sono nei codici digitali di algoritmo, ma nei dati che l’algoritmo si limita a riprodurre. Smettiamo di credere che tutto quel che può essere fatto dalle macchine sarà fatto dalle macchine. Ci sono pur sempre scelte che dipendono da governanti e imprese, dagli stessi lavoratori. Le vetture autonome lo confermano: non si può impedire il progresso tecnologico, ma si può regolarne l’uso e ottimizzarne i benefici sociali» [Nicolas Lepeltier, «”Il faut que l’automatisation des métiers favorise l’émancipation”», intervista a Stefano Scarpetta, direttore OCSE, Le Monde Éco&Entreprise, 31/07/2019, p. 11].
Ciò che per i millennial è «prendere coscienza della propria finitezza, modificare radicalmente il proprio rapporto con l’altro, agire su di sé per agire sul mondo», per gli adulti è «concentrarsi su compiti più innovativi, più creativi, in lavori più d’équipe – ciò che si dice ‘intelligenza sociale’». ‘Intelligenza sociale’ e ‘intelligenza artificiale’ sono le leve di governo della rivoluzione digitale oggi bloccata anche nei paesi che sembrano tirare la corsa, ormai corsa di tutti contro il tempo, non più a staffetta. Con abilità, risorse e prospettive proprie, qui e ora tutte le generazioni devono promuovere e tutelare i diritti d’ogni singola persona, non solo di un’astratta umanità che non si sa dov’è, mentre la nostra casa comune, la terra, ha un estremo bisogno di attenzione e cure.
Diventare adulti non è più necessario per i politici nazionali. In Brexit, «quale stimolo può ricavare un paese ancora piuttosto influente, prospero, ampiamente funzionale nel vedersi nazione prigioniera di un neo-stalinismo di tormentosa soggezione, come ha fatto il ministro degli esteri Jeremy Hunt nell’ottobre 2018? È il fascino della irresponsabilità». «È, per una parte significativa della sua classe dirigente, una impotenza totale che tutto corrompe. Non può avere colpe per i gravi problemi di divisione di classe e geografica, squallore montante e crescente ineguaglianza. Ha scuse per tutto, e nessuna responsabilità» [Fintan O’Toole, Heroic Failure. Brexit And The Politics Of Pain, Head of Zeus 2018, p. 25]. Lo conferma Stanley Johnson, anti-Brexiter padre del premier Boris: «nessuno vuole un ‘no deal’. Ma credo che l’UE ci spinga verso il ‘no deal’. È prioritario che i nostri partner europei capiscano di avere una responsabilità enorme. Non hanno bisogno di scegliere questa strada». «Ci buttate dall’alto della falesia. E chi soffrirà di più? Non il Regno Unito. Saremo pronti… Ricordatevi il 1940… Chi soffrirà davvero saranno gli irlandesi» [Éric Albert, «Le père de Boris Johnson supplie l’UE de faire un geste», Le Monde, 01/08/2019, p. 4]. Tutta colpa degli altri.
Ma il 1940 è solo un ricordo. In USA il vetero-adolescente Trump è «snafu (“Situation Normal: All Fucked Up”, “Tutto bene, è un casino”)». «Lo stile di Donald Trump è anzitutto allusivo, usa parole-chiave immediatamente comprensibili solo al suo uditorio, ma che richiedono raffiche di spiegazioni per lo straniero. Va pazzo per “they”, talora di dubbia identificazione. Dà per scontato che l’uditorio conosca da lunga data le idee che strutturano la sua visione del mondo, da quando nel 1987 tentò per la prima volta di entrare in politica, e in effetti non sono cambiate granché. È un altro tratto dei suoi interventi: sempre l’identico, ridotto registro di parole considerate intercambiabili, il cui significato dipende in modo anormale dal contesto in cui le dice» [Gilles Paris, «A Washington, “tout va bien, c’est le bordel”», Le Monde, 02/08/2019, p. 23].
In Italia «l’obiettivo è, in primis, quello di eguagliare i concorrenti nella presenza capillare sui social network» [Giovanni Ziccardi, Tecnologie per il potere. Come usare i social network in politica, Cortina 2019, p. 25]. «La rivista tecnologica Wired, nel marzo del 2018, in un articolo a firma del giornalista Andrea Daniele Signorelli, ha cercato di tracciare un primo punto sull’uso dei social media da parte dei politici italiani». «Signorelli muove la sua analisi dal livello (e dalla modalità) di presenza sui social network di Matteo Salvini e del suo strettissimo rapporto con Luca Morisi, il suo spin doctor» [ivi, pp. 41-2]. A Rovato, gli operai dicono: «Landini? Il suo sindacato ce lo teniamo stretto, altrimenti non sappiamo a chi rivolgerci in caso di bisogno. Salvini? Ci ha convinti perché è l’unico politico che parla come noi, degli altri non si capisce niente». «Il fatto è che in tutto questo gran chiacchierare della politica la Lega almeno si avvicina ai discorsi che facciamo al bar la sera». Più scafato, «il sindacalista Ibrahima vince facile quando estrae i ferri del suo mestiere, per dimostrare che Salvini non fa gli interessi degli operai: “A voialtri lavoratori leghisti per caso vi piace la flat tax? A te che guadagni 27 mila euro l’anno il fisco trattiene il 23%; spiegatemi perché l’impresario dovrebbe pagare solo il 15%. C’è qualcosa che non torna”. Gli danno tutti ragione» [Gad Lerner, «Tra Lega e Cgil gli operai del Nord», la Repubblica, 02/08/2019, p. 8].
Quello che non torna sono le «camere dell’eco. Si tratta di una situazione tipica dei social network, nella quale ogni utente – nel caso che ci interessa, ogni elettore – è chiuso all’interno della sua camera dell’eco, nella quale finisce per sentire sempre di più, e con sempre più ridondanza, proprio ciò che vorrebbe sentire» [Ziccardi, cit., p. 78]. Salvini conferma: «Noi dialoghiamo con tutti quelli che la pensano come noi» [intervistato da Marco Cremonesi, Corriere della Sera, 14/08/2019, p. 6]. «La studiosa di comunicazione politica Sara Bentivegna ha, nel corso degli anni, evidenziato (almeno) quattro elementi essenziali che caratterizzano le attività dei politici sui social network: 1) la personalizzazione, 2) la disintermediazione, 3) la semplificazione, 4) la velocizzazione». In digitale, è «metterci la faccia», «a tu per tu», con «linguaggio del quotidiano» e «una velocità» prima ignota, che «genera una sorta di fast politics, ovvero un affastellamento di dichiarazioni, proposte e reazioni che perdono la loro rilevanza e specificità in un arco di tempo estremamente breve» [Ziccardi, cit., pp. 81-4]. La disintermediazione, in particolare , «è fatale per il pensiero». «Non solo il pensiero ma la percezione sussistono soltanto grazie alla mediazione, quindi attraverso continui aggiustamenti e compromessi, che sono l’opera stessa della mediazione» [Roberto Calasso, L’innominabile attuale, Adelphi 2017, p. 77: cit. da Ziccardi, p. 83]. «Il racconto della politica in rete ha assunto ormai usualmente il tono del fragore e delle lettere maiuscole, dei messaggi apocalittici e definitivi, per scivolare poi verso l’insulto, il dileggio e la ridicolizzazione dell’avversario. Il risultato di una simile strategia della tensione [sottolineatura mia, nostra vecchia conoscenza] è duplice: da un lato favorisce l’emersione di personalità politiche arrembanti e narcisiste, dall’altro prevede un meccanismo di assuefazione rapidissimo, che può essere contrastato solo aumentando la dose di rumore comunicativo» [Massimo Mantellini, Bassa risoluzione, Einaudi 2018, p. 114: cit. da Ziccardi, p. 89].
Brexit, AmericaFirst, PrimaGliItaliani sono vuoti di governo. «Uno stato nazionale è, anzitutto, un riparo». «Nella violenta tempesta della globalizzazione neoliberale, sappiamo di non potere essere completamente protetti. Ma ragionevolmente ci aspettiamo di avere un ombrello sulla testa. Brexit è parte di un fenomeno molto più vasto e ci parla di due realtà molto più vaste. Una è che non puoi chiedere fiducia alla gente e al contempo dire che lo stato non ha parte alcuna nella sua vita quando il mercato vuole carta bianca. L’altra è che la macroscopica ineguaglianza provocata dal neoliberismo è sempre più incompatibile con la democrazia e perciò, nelle democrazie liberali, con la stabilità. Se ci dev’essere un mondo oltre il dolore e il vittimismo, è necessario trovare un ombrello» [O’Toole, cit., pp. 200-1]. Nella globalizzazione neoliberale l’ombrello è sovranazionale. Ridotto a un bastone, l’ombrello nazionale è inservibile, se non per sfogare la rabbia su capri espiatori. Nel nostro decreto-sicurezza bis, Gaetano Azzariti, intervistato da Liana Milella, rileva che è «“violata la Costituzione in più parti. La solidarietà è un dovere, non può essere punita”». «“Ma le sembra possibile prevedere sanzioni comminate nei confronti di atti doverosi?”» [la Repubblica, 06/08/2019, p. 2].
L’Europa è necessaria perché, chiusi i nostri confini, dopo gli immigrati servono altri capri espiatori, nel caso gli italiani discriminati dall’autonomia differenziata, e poi altri ancora e così via. I politici nazionali stanno affondando nella loro stessa violenza, mentre entra nella storia «una gioventù che non può più permettersi di restare nell’adolescenza» [Robin, cit.]. La c’è la Provvidenza.

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