Divorziati risposati: la proposta di Basilio Petrà


Una nuova proposta autorevole nel dibattito sui “divorziati risposati”


«Come la Chiesa sulle orme pastorali di Paolo è andata incontro alla fragilità della condizione vedovile consentendo le nuove nozze, così potrebbe ammettere oggi (data la fragilità impressionante del matrimonio nelle nostre culture) a nuove nozze – in un contesto di irreversibile fallimento, di pentimento, di seria volontà coniugale nella nuova unione –, senza porsi la questione della compatibilità del vincolo precedente con la celebrazione di nuove nozze nella Chiesa, questione da lasciarsi del tutto alla sapienza di Dio come già nel caso dei matrimoni vedovili». 
Nell’ambito del confronto teologico e pastorale che si sta sviluppando nella Chiesa cattolica in vista dei due Sinodi sulla famiglia, quello straordinario del 2014 e quello ordinario del 2015, tra le varie problematiche emergenti c’è l’ammissione dei divorziati risposati ai sacramenti. Sul n. 11 del Regno (369-372) viene pubblicata una proposta formale di Basilio Petrà, professore ordinario di teologia morale presso la Facoltà teologica dell’Italia centrale, che individua la possibilità di tale accoglienza nelle situazioni in cui ricorrano alcuni elementi oggettivi che permettono di parlare di «irreversibile fallimento» dell’unione coniugale.
Il testo integrale si può leggere a questo link:

http://www.ilregno.it/php/view_pdf.php?md5=f7ae1ea28f1d178bd263cf403785bbcb

Il lettore potrà facilmente notare la apertura e il buon fondamento della prospettiva di Petrà. In particolare mi sembrano decisive alcune affermazione, intorno alle quali ruota l’intero “sistema” dell’intervento e che voglio riportare qui sotto. A mio avviso si tratta di uno dei contributi più lucidi che siano stati pubblicati finora.

“La mia proposta ha un primo fondamentale presupposto. Se la Chiesa dinanzi all’irreversibile fallimento matrimoniale si limita a prenderne atto prospettando alle persone coinvolte la vita da soli (solitudine nel senso di impossibilità di una nuova vita coniugale) come unica via compatibile con un futuro di piena appartenenza alla Chiesa (fino alla morte del primo coniuge) carica sui suoi fedeli un peso ‘insopportabile’ e li rende prigionieri del loro passato” (369)

Il servizio di accoglienza dovrebbe avere, come fine, il “ristabilimento della piena comunione con la vita della Chiesa attraverso il riconoscimento ecclesiale della nuova unione” (370)

“La celebrazione sacramentale delle seconde nozze consentirebbe di evitare conseguenze derivabili da procedure (itinerario penitenziale, pura soluzione in foro interno) che portassero ultimamente alla semplice riammissione alla comunione non della coppia in quanto tale ma singolarmente dei due, pur uniti in una attiva condizione di tipo coniugale” (370)

“Il diritto canonico in questo momento non è in grado di includere nella propria prassi tutta la gamma dei matrimoni falliti, pur avendo storicamente ampliato il suo potere di risoluzione del vincolo per far fronte ai matrimoni (in qualche modo) falliti. La Chiesa ha il diritto e il dovere di esercitare il suo potere pastorale andando oltre. […] Fino ad ora, tuttavia, la pastoralità della Chiesa in questo ambito si è manifestata entro i limiti posti dal diritto canonico, che ha in linea di principio escluso la nozione di fallimento utilizzando solo il dualismo: unione valida-unìione nulla. In altre parole, la Chiesa si è autolimitata e ha subordinato l’esigenza pastorale alla possibilità di una  forma giuridica dualistica (validità-nullità). Oggi tale autolimitazione conduce a una chiara impossibilità di adeguata risoluzione pastorale di tanti matrimoni falliti e determina la contraddizione tra tra l’uso ecclesiale del diritto e il senso di tale uso” (372)

“La Chiesa ha il diritto e il dovere  di risolvere pastoralmente tale contraddizione per aprire la via della salvezza alle persone pentite ma in condizione di una nuova unione. La Chiesa, infatti, non è in sé sottoposta al Codice, anche se lo pone come strumento regolativo della sua vita sociale. Il potere salvifico della Chiesa è più ampio del potere canonico, che è solo un aspetto e un’espressione del potere della Chiesa” (372)

Share