E se le indulgenze sono senza materia?


Quando si avvicina un Giubileo, scattano le abitudini, quelle buone e quelle meno buone. Tra di esse c’è il recupero dall’armadio dello scheletro delle indulgenze. Dico lo scheletro a ragion veduta. Perché la pratica festiva della indulgenza ha un duplice presupposto feriale, che oggi è difficile trovare nei cuori, nelle parole e nei corpi di cattolici contemporanei. Non credo che sia giusto presentare la indulgenza come “un grande regalo” che riceviamo nel Giubileo. Non è così. Perché il regalo, per esistere, non dipende solo dalla fede, ma da alcuni elementi della cultura e della affettività del soggetto, che non si possono inventare se non ci sono: non li crea “ex nihilo” né il papa né i santi, pur con tutta la loro forza.

Per non dire cose troppo imprecise, iniziamo dalla definizione classica: la indulgenza è la “remissione della pena temporale”. Che cosa significa? Non si può ridurre questa dimensione ad una sorta di persistenza del “male” nel nostro cuore. Non è così. Piuttosto si tratta di distinguere accuratamente, cosa oggi tutt’altro che facile, tra “colpa-peccato” e “pena-punizione”. La indulgenza non agisce sulla colpa o sul peccato, ma sulla pena/punizione.

Una volta chiarito questo primo punto, scatta subito un seconda domanda: ma che cosa è questa pena-punizione? Non siamo forse “assolti”? Come possiamo ricevere e aver bisogno di una pena? La tradizione risponde così: con il sacramento della penitenza si riceve un perdono che “cancella la pena eterna”, ma la pena temporale – che discende dall’aver peccato, non semplicemente dalla determinazione del confessore –  non viene superata dalla assoluzione. Anche dopo la assoluzione resta la “pena temporale”. Ma di che cosa si tratta? Qui noi entriamo in crisi, perché in larga parte, per tante diverse ragioni, non sappiamo più che esiste una “pena temporale”. Questo dipende dal fatto che la confessione non termina più, in generale da alcuni secoli, con una puntuale indicazione della “pena temporale” da svolgere da parte del peccatore perdonato. Al “male che persiste” non si risponde anzitutto con le indulgenze, ma con il “fare penitenza”. Ecco un esempio famoso di “pena penitenziale”.

Nei Promessi Sposi di A. Manzoni, la “pena temporale” dell’Innominato, ad esempio, consisteva anzitutto nella urgenza di liberare Lucia. Poi nella esigenza di cambiare vita, nella fatica di comunicare ai suoi collaboratori che era finita la mafia di prima, che doveva congedarli e che non lo avrebbero più servito. Pena temporale è “vita di penitenza”, fatica e lacrime per rimediare al male commesso e impostare una vita nuova.

Il carico di una “vita di penitenza” può essere anche molto pesante: in occasione di feste importanti, di visite a luoghi significativi o di anniversari solenni, la indulgenza “rimette la pena temporale”, in toto o in parte. Questo è ragionevole ed è stato, lungo la storia, una via penitenziale autentica, al di là del suo traadursi in “commercio”. Il commercio poteva restare, allora, anche “admirabile”.

Ma, proprio per le ragioni addotte fin qui, la indulgenza non è un “regalo”, ma il “condono di un debito”. Nessuno può vedere il regalo che riceve, se non sa di avere un debito. E la fede non basta da sola. Occorre la coscienza che la penitenza non si fa né solo né anzitutto nel confessionale. Ed è questo che oggi manca quasi del tutto.

Una serena rilettura della tradizione può farci comprendere che non si tratta di considerare “troppo mercantile” la visione rifiutata da Lutero per salvare una prassi del XIV secolo. Si tratta invece, non contro  Lutero, ma anche con il suo aiuto, di riscoprire che cosa significa “fare penitenza”. Per questa esperienza la ferialità penitenziale corrisponde alla festività della eucaristia, non della indulgenza. Sostituire la indulgenza alla comunione eucaristica potrebbe essere una delle sviste maggiori,  che non abbiamo evitato né in occasione delle indulgenze per il Covid-19, né per l’Anno di S. Giuseppe, né, viste le premesse, eviteremo per il Giubileo del 2025. Nel quale sarebbe molto più utile riscoprire il dono del feriale “fare penitenza”, piuttosto che sostituirlo con la somma deficitaria di una confessione senza pena, e di una remissione della pena priva della materia circa quam.  Premurarsi di assicurare l’indulgenza ecclesiale nelle sue forme non burocratiche viene prima che organizzare burocraticamente indulgenze in cui non c’è nulla da rimettere. Che un Giubileo possa riscoprire le vere priorità della Chiesa non mi sembra una prospettiva così strana. O no?

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