Evoluzione dell’episcopato e mutamento del magistero (di Severino Dianich)


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(nella foto Don Severino, a sinistra, con T. Citrini e L. Sartori, nel 1989)

 

Inserendosi nel dibattito sulla comprensione teologica dell’episcopato, che appare negli ultimi post, Don Severino Dianich, grande teologo e caro amico, mi ha spedito queste due pagine intense, nelle quali ricostruisce la vicenda istruttiva della trasformazione della teologia e della pratica dell’episcopato. Con interferenze culturali, storiche e istituzionali di grande rilievo, che permettono di leggere la evoluzione del concetto di “magistero”, con alcuni particolari gustosissimi. Le pubblico come contributo di approfondimento e di rilettura, dicendo tutta la mia gratitudine per uno dei “maestri” indiscussi della teologia italiana del post-concilio (ag)

Evoluzione dell’episcopato e mutamento del magistero

[Tratto da S.Dianich, Magistero in movimento. Il caso papa Francesco, Dehoniane, Bologna 2016]

Con il VII secolo volge al tramonto la stagione dei grandi vescovi predicatori della chiesa antica, con il magistero delle loro omelie e delle catechesi, legate al vissuto delle chiese locali. Il magistero si va concentrando nel papato assumendosi sempre di più il compito, quasi esclusivamente, di controllare la dottrina, con la formulazione frequente di elenchi di proposizioni da condannare. Della predicazione al popolo e di un magistero omiletico dei papi, invece, dopo Gregorio Magno, non rimane traccia significativa. La svolta determinerà l’idea stessa di magistero che in qualche maniera verrà a darsi forma indipendentemente dalla predicazione al popolo. La trattatistica teologica, dovendo ricorrere per le sue tesi al magistero, si ritroverà a non poter più citare omelie e discorsi dei papi al popolo, ma solo loro documenti formalmente emanati dal papa in persona o dagli organismi della Santa Sede, come atti imperativi dell’autorità. La predicazione, invece, ormai demandata ai frati mendicanti e, in seguito, a religiosi di altri ordini, vedrà fino al concilio di Trento, ma con alcuni strascichi fino alle soglie del Vaticano II, il vescovo con il suo clero fra gli ascoltatori della predica1 più che fra i predicatori, a testimonianza di una scollatura avvenuta fra magistero e predicazione.

L’abbandono della cura pastorale

Complice di questa prassi fu l’abbandono di fatto, da parte del papa e della grande maggioranza dei vescovi, della cura pastorale e della predicazione diretta al popolo. Lo sfondo teoretico sul quale, però, una tale prassi si muoveva a suo agio era la divaricazione, e quindi la prevaricazione, della potestas iurisdictionis sulla potestas ordinis, quest’ultima restando quasi irrilevante in ordine al governo della chiesa e ristretta all’ambito della celebrazione dei riti sacramentali. Dante vi scorgerà un aspetto della stessa corruzione della gerarchia del suo tempo: “Per questo l’Evangelo e i dottor magni / son derelitti, e solo ai Decretali / si studia, sì che pare ai lor vivagni”2. Quando il concilio di Trento vorrà restaurare la cura pastorale del popolo, imporrà ai titolari di giurisdizione, cioè ai vescovi, ai pievani e ai parroci, l’obbligo di predicare. Si trattava semplicemente di restaurare, per il bene del popolo, l’adempimento di un dovere allora ampiamente disatteso, derivante da un ufficio i cui titolari godevano delle rendite del corrispondente beneficio, al punto che nulla ostava a che essi lo adempissero “per alios”, detraendo dalle loro rendite quanto necessario per stipendiare il predicatore3. Tutto, quindi, si si muoveva nell’ambito della giurisdizione e non aveva molto a che fare con la loro ordinazione sacerdotale. In quanto alla fonte della giurisdizione, poi, dominava l’idea che stesse nel papato: vedi come la annosa disputa del XIII secolo sul diritto di predicare dei frati mendicanti comportasse in realtà una questione più grave, quella del rapporto fra la giurisdizione del papa e quella dei vescovi. A proposito di questa, infatti, si avviava una disputa che continuerà per secoli intorno all’interrogativo se fosse o no de iure divino4. Dall’elezione veniva al papa la giurisdizione su tutte le chiese con la potestas di regolare canonicamente l’esercizio della predicazione e di definire la dottrina da predicare, ma il papa stesso non sembrava tenuto a predicare5. “Papa est nomen iurisdictionis” sarà un topos costantemente ripetuto, dopo che nel secolo XIII Agostino Trionfo l’aveva coniato6. Per Walter Kasper si trattò di “un passaggio dall’auctoritas alla potestas, dalla traditio alla discretio, dalla communicatio fidei alla determinatio fidei7. Con la progressiva rarefazione, inoltre, dei concili particolari, il magistero dei vescovi praticamente uscirà dalla scena come protagonista per ridursi al ruolo di esecutore dell’autorità superiore.

La svolta del Concilio Vaticano II

Una impostazione di questo genere si tramanda fino al concilio Vaticano II il quale, definendo il carattere sacramentale del ministero episcopale, mette in discussione tutto un impianto teologico, perché vi compare il sacramento come la fonte di tutto il triplex munus, non più divisibile in due filoni dei quali uno deriverebbe dal sacramento dell’ordine e l’altro dall’auctoritas giurisdizionale. La questione del magistero e le forme in cui lo si esercita non può non tener conto di una svolta così importante.

Una evoluzione dell’esercizio del magistero, a dire il vero, si era già avviata nella prassi, prima che la dottrina giungesse alla sua maturazione. I papi, infatti, con la prassi delle lettere encicliche, a cominciare dalla Ubi primum di Benedetto XIV del 1740, avevano cominciato a ridare al loro insegnamento un carattere pastorale. Fu una felice ripresa di quello che era stato, agli albori della storia cristiana, lo strumento principe di comunicazione fra le chiese. Dalle tematiche giuridico-pastorali di Benedetto XIV si passa, con Gregorio XVI, alla preoccupazione di avere la solidarietà del popolo cristiano alla sua indefessa denuncia della cultura e della evoluzione politica contemporanea, e con Leone XIII alla elaborazione di un adeguato insegnamento della chiesa sulla questione sociale, che stava agitando drammaticamente il mondo contemporaneo. Spesso, però, le encicliche saranno utilizzate anche per condannare anche posizioni teologiche giudicate eretiche o pericolose, dalla Quanta cura di Pio IX alla Humani generis di Pio XII, fino alla Veritatis splendor del 1993 e la Fides et ratio del 1998 di Giovanni Paolo II.

1 Tuttora nella curia romana sussiste l’uso della predicazione del quaresimale: ma non è il papa che predica alla comunità dei suoi collaboratori, bensì un predicatore invitato ad hoc, che predica al papa, ai vescovi e agli altri curiali.

2 D.Alighieri, La divina commedia, Paradiso IX,133-135.

3 Sessio V, Decretum II super lectione et praedicatione, 9-11 e Sessio XXIV, can IV, in COeD 669 e 763.

4Cf. L.Villemin, Pouvoir d’ordre et pouvoir de jurisdiction, Cerf, Paris 2000; A.Dusini, Il decreto dogmatico sul sacramento dell’ordine sacro promulgato nella sessione XXIII del concilio di Trento, in Il concilio di Trento e la riforma tridentina. Atti del convegno storico internazionale 2-6 sett 1963, Roma 1965, II, 577-613. Intorno alle possibili conseguenze del passaggio da un quadro giuridizionale a quello sacramentale sulla teologia del papato vedi S.Dianich, Per una teologia del papato, San Paolo, Cinisello B. 2010, 81-118.

5 E’ significativo che la predica improvvisata di Pio IX a Sant’Andrea della Valle, nel 1850, come quella tenuta nel 1853, durante una cerimonia al Carcere Mamertino, abbiano fatto notizia, fino ad essere immortalate in disegni e quadri dell’epoca.

6 Agostino Trionfo, Summa de potestate ecclesiastica, Vincentius Accoltus, Romae 1582.

7 W.Kasper, Teologia e chiesa, Queriniana, Brescia 1989, 50.

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