Gli atti del penitente: azioni o “autocertificazioni”? Una questione dimenticata


La tradizione della penitenza ecclesiale è una esperienza a diversi strati. La “metanoia” greca (che i latini traducono per lo più come “poenitentia”, è un contenuto originario della esperienza battesimale. Il “fare penitenza” sta all’origine della fede. Per questo la tradizione ne ha parlato anzitutto come di una “virtù”. Una virtù come dono di grazia battesimale nel vivere le “azioni” e le “passioni” di una vita che cambia. Perché gli antichi sanno che la vita cambia di per sé, nel nostro agire e nel nostro patire. Di questo cambiamento la virtù battesimale della penitenza diventa sapienza maturata in rapporto alla Parola, al Sacramento, nella fede, nella speranza e nella carità.

Quando si è iniziato a configurare il significato di penitenza come di un “sacramento” diverso dal battesimo, questo è nato in relazione a quei battezzati che avevano perduto la possibilità di vivere il perdono di Dio (e di perdonare il prossimo) a causa di una colpa grave. La “seconda tavola” è, appunto, seconda rispetto al primato della esperienza del perdono nel battesimo e cresima che si ripetono nella vita eucaristica ogni domenica e /o ogni giorno.

Quando è nata l’esigenza di dare figura a questo “quarto sacramento” si sapeva bene che esso doveva da un lato rinnovare la esperienza del perdono di Dio, ma dall’altro recuperare la “virtù di penitenza” – che di nuovo diventava possibile al peccatore perdonato. Ma questo recupero era centrale, dato che, come sacramento, l’azione ecclesiale non ha soltanto un ministro (il presbitero o il vescovo), ma due (anche il penitente) al quale si riferiscono “tre atti” come condizioni del sacramento.

La elaborazione dei “tre atti” è stata lunga e complessa e deriva da una sintesi molto tarda, che troviamo a partire dal XII secolo. Ognuno dei tre atti – dovremmo sempre ricordarlo – è stato il “tutto “ del sacramento. Nei primi secoli, almeno fino al VII secolo, il sacramento era il “fare penitenza” e poteva durare mesi o anni. Per altri secoli è diventata decisiva la “confessione”, ma senza il confessionale. Infine, proprio a partire dalla scolastica, il valore del “dolore per il peccato” è divenuto centrale. Le sintesi scolastiche e la teologia moderna mettono insieme questi tre “atti” e li raffigurano plasticamente in questo modo: la penitenza avviene “in corde, in ore, in opere”. Il penitente “cambia vita” se il suo cuore prova dolore e cambia sentimenti, se la sua bocca cambia parole e riconosce il peccato, se il suo corpo cambia le azioni e ripara il male compiuto.

Dei tre atti che la tradizione contempla, solo uno è un “atto verbale”: ossia la confessione. Nella confessione si tratta di “parlare”, anche se si dovrebbe parlare a partire dalla Parola di Dio, dalla confessione di fede e di lode, e non semplicemente del peccato. Gli altri atti sono “non verbali”, perché hanno a che fare con sentimenti, emozioni, desideri, volizioni e con azioni, progetti, disposizioni.

E’ certo che il fatto che noi siamo stati capaci di ridurre sia “il lavoro sul corpo” (ossia il fare penitenza) sia il “lavoro sul cuore” (ossia la contrizione) a “formule di preghiera o di attestazione di dolore” questo è un contributo poderosissimo alla formalizzazione del sacramento e alla sua riduzione di un “sacramento in cui il soggetto resta meramente passivo”. E abbiamo capito che questo non è affatto “tradizionale” (come dicono anche siti ecclesiali non secondari): è una legittima, ma limitata invenzione del XX secolo. Nel rito è una invenzione del 1973.

La lunga tradizione che ha studiato l’atto di contrizione (chiamandolo anche atto di dolore) non ha mai pensato di poter ridurre la “contrizione” ad una “autocertificazione”. Così come nessuno mai nella storia ha potuto concepire la “penitenza” come una sequenza standardizzata di preghiere, che il soggetto è obbligato a “recitare” prima di comunicarsi.

Lo scandalo per la presenza nell’”atto di dolore” di una formulazione distorta e meschina (“perché peccando ho meritato i tuoi castighi”) non deve distogliere dalla questione maggiore: il sacramento della penitenza non fa degli “atti del penitente” una sorta di “documenti richiesti” perché il sacramento venga celebrato validamente. Il sacramento della penitenza non consiste nella sola assoluzione, ma nella relazione tra il rinnovarsi della parola di perdono (che è quella battesimale) in rapporto ad un soggetto che alla luce della grazia inizia a lavorare su di sé. Il sacramento della penitenza non è un “nuovo battesimo”, ogni volta rinnovato: gli antichi, i medievali e i moderni sapevano bene che la differenza tra la (relativa) immediatezza del battesimo (soprattutto del pedobattesimo) e la lenta mediazione della penitenza è l’unica giustificazione del IV sacramento. Per questo il Concilio di Trento ha chiamato questo sacramento “battesimo laborioso”: questo aggettivo non si lascia maneggiare con “formule”, che sostituiscano, formalisticamente, il lavoro sul cuore, il lavoro sulla bocca e il lavoro sul corpo. Solo il prete ha per sé una formula. Il penitente ha da compiere “atti” che in nessun modo si possono comprendere con la categoria dell’autocertificazione. Le ragioni di B. Pascal, contro la riduzione della teologia della penitenza del suo tempo, non erano poi così campate per aria e suonano oggi come una profezia.

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