Gli slogan e le maschere: “smaschilizzare” e la fenomenologia del teologo imbarazzato


Mi pare che l’articolo apparso oggi, 5 giugno, su “Avvenire”, col titolo Come smaschilizzare la Chiesa? Non solo slogan, ma buone pratiche, a firma di Alberto Cozzi, offra in modo esemplare quella che mi verrebbe da definire come una “fenomenologia del teologo imbarazzato”: a dire il vero la cosa si manifesta in modo davvero frequente, in diversi autori competenti, quando il tema è quello della “donna nella Chiesa”. Nel breve volgere di due colonne, Cozzi scrive sul tema in un modo sfuggente e indiretto. Le spie di questa dinamica sofferta sono numerose. Si inizia e si conclude con un “paradosso”: non sarebbero gli slogan (come “smaschilizzare”) ma le buone pratiche ad essere utili. Sì, certo, gli slogan non vanno lontano, però è lo stesso Cozzi a dover ammettere che le “buone pratiche” devono anche trovare argomentazioni, principi, ragioni. Lo stesso accade per la considerazioni della “novità” della donna autorevole. Cozzi cita un documento della CTI, della quale è anche membro. Un testo limpido e chiaro, che invita a non opporre rivelazione e cultura, tradizione e segni dei tempi. Ma che cosa fa Cozzi, subito dopo? Oppone drasticamente cultura e rivelazione e così può uscirsene con una serie di “buone pratiche” che avrebbero potuto funzionare già nel 1342, nel 1678 o nel 1865. Invocare “buone pratiche” soltanto in ciò che era possibile nella “società dell’onore”, per donne e uomini, e non comprendere che la sfida è quella lanciata da Giovanni XXIII e dalla “entrata della donna nello spazio pubblico” sancita con Pacem in terris mi pare un modo piuttosto grave di astenersi dal proprio compito di teologo. Che cosa deve fare un teologo, di fronte alla questione della donna? Rimandare semplicemente a buone pratiche? Dare per scontato un quadro “istituzionale” in cui il battesimo è per tutti ma il ministero ordinato è “riservato ai maschi”? Sarebbe questo il compito della teologia? Lavorare soltanto “de iure condito”? Impedirsi ogni spazio di riflessione “de iure condendo”? A me pare che qui scatti una sorta di “autodifesa” che diventa facilmente immunizzazione dal problema e, indirettamente, colpevolizzazione di chi lo affronta. Mentre alla teologia spetta il compito di elaborare, pacatamente e serenemente, ma seriamente, una visione che tenga conto di un dato culturale nuovo e che permetta perciò una rilettura più profonda e più autentica della tradizione. Nessuna “cancel culture”, nessun giudizio sommario sul passato, ma solo consapevolezza che il nostro mondo non è più quello di prima, e che uno dei “segni” di questo mondo è proprio la nuova figura di donna nello spazio pubblico, come elemento decisivo di una “società della dignità”.

Quando Cozzi esemplifica la questione della “libertà religiosa”, per additare la sapienza del Concilio, sembra non tener conto che quella svolta conciliare è avvenuta non semplicemente per una evoluzione lineare della tradizione, ma per la presenza nel corpo della Chiesa cattolica di forme di vita elaborate fuori dall’Europa, e che avevano della libertà una percezione e una concezione diversa dalla classica tradizione europea. Ci sono nuovo esperienze che la Chiesa deve saper mediare e di fronte alle quali ci vuole rispetto. Non si può interpretare la novità come una “rivendicazione culturale” estranea alla rivelazione: questo è un giudizio grave e non fondato. E’ piuttosto la Chiesa a doversi interrogare radicalmente se possa fare a meno della autorità delle donne. Se tale domanda è autentica, la soluzione si trova, senza scandalizzarsi per il fatto che questo percorso di nuova coscienza ecclesiale implichi la necessità di cambiare le forme, sia quelle mentali, sia quelle istituzionali. Non è la prima volta che accade. Nella storia è accaduto molte volte. Cozzi sa bene che cosa ha significato, a partire dal 1563, considerare la Chiesa e i suoi ministri come “condizioni” per un matrimonio valido. Abbiamo saputo fare una cosa totalmente nuova, che ha sollevato le obiezioni di numerosi pastori, poiché non capivano quanto “moderna” dovesse essere la Chiesa del XVI secolo. A distanza di 500 anni quella “modernizzazione” appare superata e datata, ma allora era stata un “rullo di tamburi”!

Perché mai allora, di fronte a una nuova sfida, che non riguarda il matrimonio, ma il sacramento dell’ordine, noi dovremmo rispondere che Dio non ha fretta? Che tipo di teologia è quella che chiama a testimone soltanto la pazienza di Dio? Non avendo altre “surces”, ci si rifugia su un piano sapienziale, che equivale, guarda caso, alla (nostra) inerzia. Siamo sicuri che lo Spirito di Dio lavora con calma, mentre noi vorremmo accelerare? Non si potrebbe dire proprio il contrario? Non è forse che lo Spirito di Dio parla da più di 60 anni, ci invita ad una apertura, mentre il Signore bussa per uscire da strutture troppo anguste, da mentalità troppo chiuse, e noi invece abbiamo solo pazienza, troppa rassegnazione, troppa paura? Non è forse che Dio con il suo Spirito ci spinge e ci sollecita e noi freniamo ad oltranza, preoccupati di cose secondarie, senza vedere le cose primarie?

Gli slogan non servono, se non ad accendere le attenzioni. Neppure le maschere servono, quando vengono usate per nascondere le questioni. E la teologia, che ha una lunga esperienza, può anche diventare una forma raffinata di “mascheramento” del reale. Mi sorprende il fatto che in un testo dedicato al tema dello “smaschilizzare” Cozzi voglia convincerci che la questione non merita un esame teologicamente accurato: merita solo “pazienza”. Io contesto che quello indicato da Cozzi sia un “procedere dal basso”: è piuttosto la negazione che un processo sia necessario. Per parte mia, interpreto la cosa esattamente al contrario: proprio perché minacciata da ricostruzioni impaurite e paralizzate, la questione della donna nella Chiesa merita tutta la fatica di una teologia che giochi a tutto campo e che non si rassegni, come diceva Luigi Sartori, al destino un pò limitato e un pò opportunista di giocare per sempre il “catenaccio”. C’è una questione di fede, di istituzione e di giustizia che non può attendere e che corrisponde alla impazienza con cui lo Spirito esige dalla sua Chiesa una risposta, in tutta parresia e senza impedimenti. Quella “parresia” e quella “libertà” che possono levare al teologo ogni imbarazzo e offrire alla Chiesa argomenti freschi e nuovi, sereni e limpidi, per i quali più che pazienza e silenzio occorrono immaginazione e audacia. Perché anzitutto Dio sogna e fa il primo passo.

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