grande teologia e teologia di corte (vedute)


Concilio Vaticano II e teologia di corte (vedute)
Alcune puntualizzazioni dal documento della CTI “Teologia oggi”

L’anniversario dell’apertura del Concilio Vaticano II viene vissuto nella forma di un “anno della fede”. Certamente non si tratta di “parlar d’altro”. Il Concilio Vaticano II è stato una potente ed efficace kattestazione di una fede ripresa, riletta, riattualizzata, ringiovanita, rinvigorita, rilanciata. Ciò che tuttavia vorrei qui considerare è quale funzione possa avere la teologia in una tale circostanza celebrativa. Di quale teologia abbiamo bisogno per garantire all’atto di fede tutta la sua rilevanza e tutto il suo peso a partire dalla assise conciliare?
Non vi è dubbio che il servizio teologico è riconosciuto da sempre come una funzione indispensabile per  l’esercizio del magistero della Chiesa. Proprio l’ultimo Concilio ha rappresentato un evento che ha messo in singolare evidenza la stretta collaborazione tra vescovi e teologi. Proprio per questo la teologia può anche montarsi la testa e pretendere che il magistero episcopale sia semplicemente “applicativo” dei risultati delle proprie ricerche. D’altra parte, a sua volta, il magistero episcopale può anche  arrivare a illudersi di poter fare a meno di ogni contributo teologico scientifico, di avere già, di per sé, tutti gli elementi per la azione pastorale. La arroganza dei teologi corrisponde, talvolta, alla presunzione dei pastori. Si tratta di due errori speculari e altrettanto deleteri.
Questo aspetto del rapporto delicato tra teologi e pastori viene presentato con accuratezza dal recente documento della Commissione Teologica Internazionale dedicato al tema “Teologia oggi: prospettive, principi e criteri” al paragrafo 4 (nn.37-44).  Un prima affermazione che merita di essere considerata è la seguente:

“Vescovi e teologi hanno una chiamata diversa, e devono rispettare le rispettive competenze, per evitare che il magistero riduca la teologia a mera scienza ripetitiva, o che i teologi presumano di sostituirsi all’ufficio di insegnamento dei pastori della Chiesa” (37)

Questa prima affermazione consente di identificare uno specifico servizio teologico che non permette di intepretare la funzione del teologo come quella dell’addetto stampa. Il teologo elabora la propria scienza con criteri di criticità che non sempre coincidono con la ufficialità ecclesiale: la ricerca teologica, se diventa meramente ripetitiva del magistero, non è più ricerca e non è più teologia.

Ma veniamo a un altro passo interessante, che riguarda la interpretazione “autentica” della fede, che solo il magistero e non la teologia può dare:

“L’accettazione di questa funzione del magistero relativamente all’autenticità della fede richiede che vengano riconosciuti i diversi livelli delle affermazioni magisteriali. A questi diversi livelli corrisponde una risposta differenziata da parte dei credenti e dei teologi. L’insegnamento del magistero non ha tutto lo stesso peso” (40)

Proprio a causa della diversa funzione che la teologia e il magistero esercitano all’interno della Chiesa, la teologia in alcuni pochi casi è strettamente vincolata dal pronunciamento del magistero, mentre in altri è indirizzata, consigliata, orientata, senza impedirle di esplorare e percorrere, rispettosamente e in comunione, altre strade.
D’altra parte il documento ricorda come non sia sbagliato attribuire alla stessa teologia un ruolo magisteriale: “Esiste effettivamente nella Chiesa un certo ‘magistero’ dei teologi” (39), che non ha senso pensare come alternativo o concorrenziale rispetto a quello dei pastori, ma che necessariamente conosce dei momenti di “tensione” rispetto a quello. Ed è prezioso il fatto che in nota (alla nota 87, per la precisione) il testo ricorda che Tommaso d’Aquino distingueva tra  magisterium cathedrae pastoralis e magisterium cathedrae magistralis, riferendo il primo ai vescovi e il secondo ai teologi.

Vorrei ricordare, infine, un’ultima affermazione. Si tratta della necessaria adesione al magistero, che caratterizza la tradizione della fede cattolica, e alla quale il teologo non fa eccezione, qualificando tuttavia la propria adesione come “responsabile”. Il testo qui precisa molto opportunamente:

“La libertà della teologia e dei teologi è un tema di particolare interesse. Tale libertà deriva da una vera responsabilità scientifica”. (43)

In questa espressione troviamo affermato un principio spesso dimenticato nel dibattito all’interno, ma anche all’esterno alla Chiesa. Il teologo, in quanto tale, deve essere libero proprio per la funzione di servizio che svolge all’interno della Chiesa. Potremmo dire che deve essere “libero di servire” in una forma molto determinata: la Chiesa ha bisogno di uomini e donne “liberi di esercitare il rispetto critico e la critica rispettosa”. In questo modo essa si arricchisce e si rafforza, garantendo al proprio interno, cioè all’interno della comunione ecclesiale, la presenza di voci che per mestiere/ministero debbono soppesare parole, espressioni, decisioni, strutture, evoluzioni della Tradizione, antica e recente. Non per assumere decisioni ultime (cui sono preposti non i teologi, ma i pastori), ma per prepararle, commentarle, analizzarle, correggerle.

A 50 anni dal Concilio Vaticano II possiamo riconoscere il cammino bello, fatto dalla teologia, anche in Italia, e le buone prove di collaborazione con il Magistero. Il quale, talvolta comprensibilmente, sembra temere soprattutto una teologia che abusa della libertà, che si emancipa dai vincoli, che gioca al tiro al piattello, che prende posizioni di aperto e irrimediabile dissenso. Ma questo, io credo, resta oggi un problema minore. Il problema maggiore è invece quello di una teologia che rinuncia alla libertà, che esercita la funzione dell’addetto stampa o dell’incaricato delle pubbliche relazioni, che si trasforma – spesso sua sponte – da servizio a servitù e che finisce con il ridursi a “teologia di corte”. Ma una teologia di corte fornisce invariabilmente al magistero una consulenza di corte vedute.

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