I due fallimenti di “Summorum Pontificum” (ad extra e ad intra) e un altro “Magnum principium”
Nell’ambito delle obiezioni che sono state sollevate alla “Lettera Aperta sullo stato di eccezione liturgica” una si segnala per frequenza e per argomentazione. La indico brevemente qui di seguito. Essa interpreta SP come un “argine” alle degenerazioni determinate dalla Riforma Liturgica: il fatto di affiancare ai nuovi riti frutto della riforma i riti precedenti avrebbe la funzione di “moderare” gli eccessi iconoclasti della riforma liturgica scaturita dal Concilio Vaticano II. Ovviamente questa lettura suppone una lettura accentuatamente unilaterale della storia successiva al Concilio, come se si trattasse di una “perdita” e di una “corruzione” o addirittura di una “catastrofe”. Comunque sia, questo può essere identificato come il “versante interno” delle intenzioni di Summorum Pontificum: da un lato esso infatti mirava a “recuperare” i transfughi lefebvriani (ad extra), ma dall’altro intendeva rettificare la liturgia scaturita dal Concilio Vaticano II (ad intra).
a) Liturgiam authenticam come premessa
E’ evidente che sia il prima che il secondo intento sono sostanzialmente falliti, ma per motivi diversi e anche con effetti differenti. Il secondo, infatti, non è fallito del tutto, almeno a medio termine. Perché la logica di SP era stata anticipata, qualche anno prima, da Liturgiam Authenticam, la V istruzione sulla applicazione della riforma liturgica, che pretendeva di bloccare la evoluzione della “forma ordinaria” secondo una rigida “deduzione dal latino”. Questo documento, che è di 6 anni precedente a SP, essendo del 2001, ha avuto un grande impatto su tutte le traduzioni dei testi liturgici, rendendole o incomprensibili o non approvabili. LA ha preparato il terreno a SP, facendo diventare la “liturgia in latino” l’unica vera forma comunicativa nella vita della Chiesa e gettando su tutte le traduzioni un “inferiority complex” che, con il tempo, le ha sostanzialmente emarginate. Se nella Chiesa si inizia a dire e a pensare che “solo in latino” è possibile capire davvero la liturgia, è evidente che non si riesce neppure a concepire che tutti i nuovi ordines siano stati pensati e scritti da Vescovi, preti e semplici fedeli di cui nessuno parla e pensa in latino! L’effetto “straniante” – o meglio alienante – della operazione è davvero impressionante. E molti, non tutti, si sono accodati a questa “deriva insensata”, per cui tutte le lingue “vernacole” devono essere il “calco del latino”, per cui se in latino c’è “pro multis”, in italiano si dovrebbe dire “per molti” e in tedesco “fuer viele”, e però poi si dovrebbe spiegare che “molti vuol dire tutti” e “viele vuol dire alle“.
b) Doppia forma e doppio tavolo
Dopo alcuni anni, nel 2007, il “versante interno” di SP ha inciso su questo “lato frenante” della riforma liturgica, che appare altrettanto rilevante quanto quello esterno. Ma se il progetto verso i lefebvriani è fallito per progressiva indisponibilità al dialogo da parte loro, il versante interno è imploso proprio a causa del “metodo” che è stato seguito. Il metodo dipende, evidentemente, dalla teoria della “doppia forma” dell’unico rito romano. Il metodo che ne discende pretende di lavorare, appunto, su “due tavoli”. Di modo che un tavolo possa influenzare l’altro. Ma qui c’è un ostacolo insormontabile. Se si costruisce una ipotesi di convivenza di “due forme diverse dello stesso rito romano” non si determina affatto un “interscambio” tra la forme, ma piuttosto le si irrigidisce ancor più, quasi condannando ogni forma a restare bloccata nella sua identità specifica. Così il rito straordinario “non vuole” diventare ordinario, e per converso il rito ordinario “rifiuta” ogni contaminazione con lo straordinario. Ed è qui che casca l’asino! Come è successo con i lefebvriani, così è capitato con la “riforma della riforma”. Come con i primi abbassare la asticella è solo servito a far alzare le loro richieste, e ad arrivare ad un nulla di fatto, così creare il modello di due “forme parallele”, e di “due tavoli” di esperienza e di confronto, ha solo irrigidito entrambe le parti ed ha quasi azzerato le possibilità di una vera evoluzione della forma ordinaria.
c) Un singolare criterio di scelta dei candidati all’episcopato
Va però aggiunto un secondo “effetto interno” di Summorum Pontificum, che non deve essere sottovalutato: SP non ha inciso solo sulle competenze episcopali, riducendo il loro controllo alla forma ordinaria ed esautorandoli di fatto dal controllo della “forma extraordinaria”, controllata direttamente dalla Commissione Ecclesia Dei, bensì un secondo effetto interno, indiretto ma per certi versi ancora più pesante, è stato l’utilizzo del “gradimento verso Summorum Pontificum” come criterio per selezionare i candidati all’episcopato. Sicuramente, tra il 2007 e il 2012 il fatto di “non aver parlato contro SP” è stato assunto come criterio di valutazione del presbitero episcopabile. E questo ha inciso, indirettamente, sul modo con cui il futuro vescovo sarebbe stato intenzionato a “prendersi cura” della liturgia diocesana. Anche su questo piano la incidenza di SP si è mossa nella direzione di una “esautorazione preventiva” nella nomina dei vescovi. Il che non appare proprio come la forma ideale di “pacificazione ecclesiale”.
d) Non due forme in contrasto, ma una forma comune differenziata
Se uniamo l’ effetto ad extra e il duplice effetto ad intra ,dobbiamo costatare purtroppo un esito talmente problematico, da far sorgere in noi la questione: come è potuto accadere? In effetti la astrattezza della teoria delle forme parallele – concepita come in provetta – ha subito la vendetta da parte della realtà. Se si vuole imporre un “modello duplice” di forme rituali, in vista di una riconciliazione ecclesiale, bisogna fare attenzione di non causare una più forte lacerazione, che si appoggia proprio sulla diversi dinamica celebrativa, che diventa emblema e vessillo di identità non compatibili. Non si è sufficientemente considerato, fin dall’inizio, che una “forma straordinaria” avrebbe attirato le attenzioni e i pensieri di tutti coloro che non accettavano il Concilio Vaticano II.
Superare questo regime è oggi un compito. Occorre porre fine allo “stato di eccezione liturgica”. Ma è legittimo chiedersi: come si può fare, concretamente? Alcuni ritengono, pessimisticamente, che ai fatti nuovi non si possa più rimediare. Io penso invece che il rimedio stia proprio nel superare la logica dei “due tavoli” e porre tutte le questioni sull’unico tavolo: quello dei riti riformati. Su quei riti il confronto è aperto e necessario. Il recupero dei “linguaggi elementari”, la forza del “non verbale”, le dinamiche di partecipazione corporea e la correlazione con la realtà viva del mondo e della storia sono tutti “cantieri aperti”. E lo saranno tanto meglio se non ci si illuderà più di condizionare la evoluzione non con il dibattito, il confronto e la discussione sull’unica forma del rito romano, ma giocando solo a “saltare” da un tavolo all’altro, con una crescente estraneità dell’uno all’altro. Un altro “magnum principium” deve essere affermato: non solo quello della “partecipazione attiva” che valorizza le lingue madri di coloro che celebrano, ma anche quello dell’unica forma rituale comune e vincolante per tutta la Chiesa (“communis rituum forma”). La vera differenziazione rituale non può essere quella tra forma “ordinaria/straordinaria”, che in quanto tale paralizza ogni sviluppo possibile, ma quella di un’unica forma ordinaria che si declina e si differenzia in tutte le lingue madri degli uomini e delle donne: lingue composte di linguaggi verbali e di linguaggi non verbali, che fanno bella la Chiesa delle mille variazioni dell’unico mistero pasquale. Al centro non si colloca una “teoria vuota” sul parallelismo tra forme astratte, ma l’ “esperienza concreta” di un’unica forma comune, che si dice, si canta, si muove e si riconosce così: differente nell’unità e identica nella diversità.
Intanto che si lavora sui tavoli, esistono delle persone reali che trovano maggiore giovamento per la loro vita spirituale nella partecipazione al vetus piuttosto che al novus.
Queste persone che ruolo hanno nella sua analisi?
Non hanno alcun ruolo. Perché le emozioni dei soggetti non sono normative per la direzione della tradizione. Non mi faccia fare l’antimodernista con un appassionato della tradizione….
In realtà, non sarebbe la prima volta che noto che lei ragiona come i più duri e puri fra i lefebvriani, però di segno opposto, mentre SP nasce anche da esigenze pastorali, in linea con il CVII.
Esigenze pastorali in cui rientrano anche coloro che il vetus ordo l’hanno scoperto con Benedetto XVI, pochi o tanti che siano.
Non credo che ci siano margini di mediazione tra CVII e vetus ordo. In questo sono semplicemente conciliare. Sono invece confusi quelli che pensano che ci possa essere mediazione. Perché il Concilio è il luogo della mediazione. Tenere in piedi il carrozzone precedente è una forma di irresponsabile compromissione della tradizione.
Ma il vetus ordo è la liturgia dei padri del Concilio, il loro rapporto con Dio è passato attraverso ciò che lei chiama carrozzone.
Non c’è bisogno di mediare ciò che è strutturalmente fondante.
Dal mio punto di vista, l’unica domanda è se Paolo VI abbia compiuto degli errori di governo nel proporre un rito alternativo che potesse accogliere alcune nuove esigenze.
Credo che la risposta di Ratzinger fosse già affermativa all’epoca, semplicemente da Papa ha potuto porre rimedio.
In un modo sicuramente migliore di chi vagheggia nuovi ostacoli verso chi vuole fare esperienza di quei riti della Chiesa cattolica che hanno una vitalità oggettiva, dimostrata dall’interesse dei fedeli verso di essi.
No, è la liturgia che i Padri del Concilio hanno voluto riformare. Non si deve giocare con le parole come fanno i bambini. Non si tratta di un “rito alternativo”, ma dell’unico rito romano, in una versione riformata, che sostituisce a tutti gli effetti la precedente forma, che esce gradualmente da ogni possibile uso.