Il sacramentum e l’officium: dalla storia una grande sorpresa


AdamEvaOtranto

Il sacramentum e l’officium: dalla storia una grande sorpresa

 Il variabile, nel processo rituale, è più intenso e più presente che l’invariabile”

Silvano Maggiani1

 

Tutto è cominciato da un libro. Il testo di G. Agamben, Opus dei. Archeologia dell’officium (Torino, Bollati Boringhieri, 2011) mi ha subito incuriosito. Come è normale per il filosofo, l’analisi meticolosa di una tradizione diventa la strategia per far emergere una dinamica nascosta, ma decisiva. Nell’officium, secondo Agamben, il cristianesimo medievale inventa il “modello di pensiero” della “azione effettuale”, diciamo dell’”opus operatum”, di cui si studia però soltanto la funzione politica. Un officium senza Dio diventa, inevitabilmente, un mostro da cui guardarsi. E a ragione. Fin dalla prima lettura ho fatto di questo libro l’esperienza che altre volte ho dovuto costatare con sorpresa. Si riceve molto anche da libri che si basano su una tesi molto fragile, per non dire completamente infondata. Certo è che questa lettura, proprio perché altamente problematica, ha acceso in me una “spia” e ha sollevato una questione, che qui provo ad esporre.

Nel frattempo, nel primo semestre accademico che si è appena concluso, mi è capitato di tenere due corsi, dedicati rispettivamente al matrimonio e al ministero ordinato. Sono i due “sacramenti di vocazione e servizio”, che la storia ha visto trasformarsi in modo significativo, essendo legati alle dinamiche di generazione, di alleanza, di autorità e di culto. In entrambi questi sacramenti si trovano le tracce di una interessante commistione tra “sacramentum” ed “officium”. Così ho scoperto che il disagio che avevo provato verso il libro di Agamben derivava da una sua indebita confusione: nel testo del filosofo si attribuisce arbitrariamente all’officium il significato del sacramentum. D’altra parte, la tradizione teologica post-scolastica ha compiuto un errore speculare ad Agamben: ha rimosso l’officium e si è ridotta a parlare solo del sacramentum. Così l’uno rimuove il sacramentum, mentre gli altri hanno rimosso l’officium! Questa considerazione può essere corroborata da alcuni testi originari nello sviluppo scolastico medievale, dai quali appare in modo chiarissimo una correlazione preziosa tra logica dell’officium e logica del sacramento, di cui hanno bisogno tanto gli approfondimenti filosofici, quanto quelli teologici. Proviamo ad esaminarne brevemente due esempi.

a) Sacramentum e officium nel matrimonio

Una delle cose che colpiscono di più, se si leggono le fonti che stanno all’inizio della tradizione scolastica medievale, è la ripetizione di un adagio sorprendente. Il matrimonio vi appare segnato da un primato singolare: è l’unico dei sacramenti che viene “istituito” prima della caduta del peccato. Perciò – così dice Ugo di S. Vittore – prima viene istituito “ad officium” e poi, dopo la caduta, “ad remedium”. La stessa cosa si legge, pochi anni dopo, nelle Sentenze di Pietro Lombardo (Sent, IV, d. 26, 1-2)

Cum alia sacramenta post peccatum et propter peccatum exordium sumpserint, Matrimonii sacramentum etiam ante peccatum legitur institutum a Domino: non tamen ad remedium, sed ad officium”

Coniugii autem institutio duplex est. Una ante peccatum ad officium facta est in paradiso, ubi esset thorus immaculatus, et nuptiae honorabiles, ex quibus sine ardore conciperent, sine dolore parerent; altera post peccatum, ad remedium facta extra paradisum, propter illicitum motum devitandum. Prima ut natura multiplicaretur; secunda ut natura exciperetur et vitium cohiberetur”

Questo significa che nella struttura del sacramento, logica di “officium” e logica di “remedium” si intrecciano strutturalmente e che per elaborare un sapere teologico sul matrimonio, occorre render conto delle due dimensioni, non di una soltanto.  Il “compito morale” e il “dono di grazia” si intersecano in radice.

b) Sacramentum e officium nell’ordine

Anche per quanto riguarda il ministero ordinato, si trova in S. Tommaso la medesima correlazione, che riguarda il modo di comprendere la “estraneità” dell’episcopato all’ordine. Per ricondurre a sintesi le sue parole, Tommaso d’Aquino ricorre, anche in questo caso, al concetto di “officium”. Ecco il testo di Tommaso (Super Sent., lib. 4 d. 24 q. 3 a. 2 qc. 2 co):

Ordo potest accipi dupliciter. Uno modo secundum quod est sacramentum; et sic, ut prius dictum est, ordinatur omnis ordo ad Eucharistiae sacramentum; unde, cum episcopus non habeat potestatem superiorem sacerdote quantum ad hoc, non erit episcopatus ordo. Alio modo potest considerari ordo secundum quod est officium quoddam respectu quarumdam actionum sacrarum; et sic, cum episcopus habeat potestatem in actionibus hierarchicis respectu corporis mystici supra sacerdotem, episcopatus erit ordo.

Come è evidente, Tommaso parla di “ordo” in due sensi: in quanto è sacramentum e in quanto è officium. Questa duplice accezione di ordo permette di leggere la realtà in modo più articolato e meno unilaterale, conducendo a considerare anche l’episcopato come parte dell’ordo. Ma è sicuro che Tommaso non confonde officium con sacramentum, ma li distingue accuratamente, perché altra è l’azione dell’uomo e altra l’azione di Dio. 

c) Sacramentum e officium nella intera sfera delle azioni rituali

Questi segnali, che vengono da testi dedicati ai due sacramenti di “vocazione e servizio”, suggeriscono di ampliare lo sguardo e di mettere alla prova una ipotesi: non sarà forse che la dimensione dell’officium qualifica in generale tutti i sacramenti e può diventare un concetto necessario per comprenderne fino in fondo la natura e la funzione? In effetti tanto la “iniziazione cristiana”, comprensiva della celebrazione eucaristica come sua meta, quanto la guarigione cristiana, che alla eucaristia riconduce, non possono essere ridotte alla loro dimensione di “remedium” e di “santificazione”. Nella loro trama di “officium”, che è “culto”, che è “strutturazione temporale e spaziale”, che è “articolazione ministeriale”, che è “processo e sequenza”, la iniziazione e la guarigione non sono semplicemente un “invisibile dono di grazia”, fuori dallo spazio e dal tempo, ma anche una “forma visibile di corrispondenza corporea e sensibile alla grazia”. Poiché vi è sempre una “grazia cooperante”, l’opus humanum non è semplicemente un accidente del sacramento, ma partecipa della sua struttura costitutiva.

Le ragioni che hanno suggerito la separazione tra sacramentum e officium si collocano all’interno della tradizione scolastica, che con Tommaso D’Aquino ha esplicitamente separato la dimensione di “santificazione”, come tipica della teologia del sacramento, dalla dimensione di “culto”, che pur essendo presente nel sacramento, viene tuttavia esaminata e studiata nella parte “morale” della Summa Theologiae, sotto il titolo della “virtù di religione”. Questo gesto di “ordinamento del materiale”, che distingue tra azione di Dio che santifica l’uomo (sacramentum) e azione dell’uomo che presta il culto a Dio (officium), ha di fatto profondamente pesato non solo sul futuro della teologia, ma anche sulla esperienza sacramentale e liturgica che la Chiesa latina ha vissuto a partire dalla fine del XIII secolo.

Ecco allora che, partendo dal testo di Agamben, attraversando prima la storia di due sacramenti, poi estendendo lo sguardo a tutto il settenario sacramentale, mi pare di trovare una singolare verità. Proprio perché non è giusto identificare la logica del sacramentum con la logica dell’officium, ossia la logica dell’opus operatum a quella dell’opus operantis (ed è questo l’errore sistematico di Agamben, che compromette tutta la sua audace rilettura), restituire alla tradizione tutta la sua forza significa però recuperare non solo ciò che la teologia ha finemente elaborato sul piano della determinazione della santificazione, ma anche ciò che altre fonti (liturgiche, giuridiche, monastiche, sapienziali) hanno accuratamente attestato de officiis. Una archeologia dell’officium non ci consegna un “dispositivo anonimo”, una mera “azione effettuale” o addirittura un “paradigma del comando”. Piuttosto ci suggerisce una riumanizzazione cultuale della grazia invisibile spesso ridotta a minimalismo sacramentale, cui rimedia con la sorprendente ricchezza delle forme rituali, nello spazio e nel tempo. Diremmo che l’officium diventa, per così dire, un “remedium” del sacramentum! Invece, l’equivoco in cui cade Agamben è quello di proiettare nell’officium le caratteristiche del sacramentum, perdendo così una distinzione che gioca una ruolo assolutamente decisivo, anche se a sua volta appare oggi altamente problematica.

d) Per concludere

Questo breve esame conduce ad una singolare rilettura della tradizione contemporanea, che uno dei migliori liturgisti italiani, scomparso da poco più di due anni, Silvano Maggiani, riassumeva con un paradosso che suona così:

Il variabile, nel processo rituale, è più intenso e più presente che l’invariabile”

L’accesso alla verità del sacramentum passa necessariamente attraverso la ricca e inesauribile contingenza di un officium. Con il concetto contemporaneo di “azione rituale” e di “liturgia”, a partire dalla nozione di “conoscenza simbolica” di R. Guardini e di “mistero del culto” di O. Casel, si è cercato di dire proprio questa novità, che la tradizione precedente conosceva nella dura scissione tra sacramentum e officium. Anche il Concilio Vaticano II può trovare, proprio in questa rinnovata alleanza tra sacramentum e officium, il modo migliore per tornare a parlare in modo eloquente ed efficace, a quasi 60 anni dalla sua apertura, che a noi giunge non solo come un misterium da ricevere, ma certo anche come un officium da compiere.

1S. Maggiani, Corpo spazio tempo. Celebrare a tre dimensioni, in AA.VV. L’arte del celebrare. XXVII Settimana di studio APL – Brescia 1998, Roma, CLV, 1999, 59-102, 101.

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