Il sesso come dono e come compito. In dialogo con Giuseppe Lorizio


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In un breve e interessante commento per SettimanaNews, che si può leggere qui, Giuseppe Lorizio individua il punto-chiave del dibattito intorno al “decreto Zan” nell’ultima delle definizioni che si trovano all’inizio del decreto. Per utilità riporto cui la serie di 4 definizioni che apre il testo di legge:

«a) per sesso si intende il sesso biologico o anagrafico; b) per genere si intende qualunque manifestazione esteriore di una persona che sia conforme o contrastante con le aspettative sociali connesse al sesso; c) per orientamento sessuale si intende l’attrazione sessuale o affettiva nei confronti di persone di sesso opposto, dello stesso sesso, o di entrambi i sessi; d) per identità̀ di genere si intende l’identificazione percepita e manifestata di sé in relazione al genere, anche se non corrispondente al sesso, indipendentemente dall’aver concluso un percorso di transizione».

Di fronte all’ultima di queste definizioni Lorizio dice che “si apre un abisso antropologico, filosofico e teologico fra quanti ritengono che l’identità di genere si debba assumere come criterio legislativo e quanti invece vi si oppongono”. Quale è la argomentazione che sorregge questo dissidio? Lorizio indica in un approccio “realistico” la accettazione di una “precedenza” rispetto all’uomo, che è allo stesso tempo un “dato” e un “dono”. Questa precedenza impedirebbe di poter accettare una “prospettiva di genere” come normativa. Riporto per intero le due frasi in cui Lorizio sintetizza la sua posizione, commentando il punto d) della definizione:

“Chi, come il sottoscritto, pensa che il punto d) rappresenti una reale e non surrettizia criticità della proposta di legge, muove in una prospettiva di realismo, secondo la quale c’è qualcosa che ci precede e ci seguirà, per cui ad esempio non abbiamo deciso se, come e quando esistere, eppure esistiamo e viviamo e siamo chiamati, qualora non lo fossimo, a riconciliarci con la nostra esistenza. 

Questo vogliamo dire quando affermiamo che la vita è «dono» da raccogliere e da offrire. E della vita fa parte il «sesso» (punto a) delle definizioni). Il sesso è dono! Forse non sempre lo abbiamo insegnato e percepito così nella forma del cattolicesimo convenzionale, ma è difficile sostenere il contrario. Le scelte soggettive e individuali vanno collocate in questo orizzonte di senso della vita e della morte”.

In queste parole chiare, mi pare emerga una posizione classica, con cui non solo la fede cattolica, ma anche la ragione comune hanno elaborato posizioni importanti di custodia della tradizione e della umanità dell’uomo. Proprio per questa lunga tradizione, Lorizio può dire di non aver esultato per l’esito della votazione del 27 ottobre, dove non ha vinto nessuno: “non l’amore per la vita e il sesso come dono, in quanto rappresentato anche da gruppi sovranisti e inclini ai respingimenti, non il rispetto delle persone, che avrebbe meritato una legge contro la violenza omofobica tale da salvaguardarne la dignità.” 

Penso che questo passaggio “preoccupato” del testo possa aiutare a cogliere una questione ulteriore, che dal testo non trapela, e che forse merita una specifica attenzione. Provo a spiegarla qui di seguito.

Non solo dati e doni, ma compiti

Il sesso, a ben vedere, non è semplicemente un “dato naturale” che ci caratterizza originariamente, e neppure è solo un “dono” di cui rendere grazie. Il sesso, come ogni altra parte del nostro corpo e della nostra vita, è anche un compito. Questa categoria, che certamente è classica, visto che intorno al sesso abbiamo costruito raffinate dottrine morali, rende molto più complessa la relazione che abbiamo con il sesso, con il corpo e con la vita. Proprio perché siamo “animali che hanno la parola e le mani”, non possiamo mai mettere semplicemente “in asse” il dato e il dono. Tra il dato e il dono vi è il compito, ossia il legame, la lotta, la scienza, la tecnica: vi sono mediazioni tipicamente umane. Nella parola e nelle mani la vita, il corpo e anche il sesso vengono assunti e trasformati. Per l’uomo è così fin dall’origine. Con la parola e con le mani, che l’uomo ha ricevuto da Dio, l’uomo trasforma la vita, il corpo e il sesso e diventa a immagine e somiglianza di Dio. Non come posto o dato, ma come compiuto. Nell’inizio che l’uomo riceve è scritto l’inizio che deve diventare.

Questa differenza implica che la prospettiva, da Lorizio indicata come “soluzione”, ossia la “riconciliazione” abbia assunto, nel corso dei secoli, volti e forme assai diverse. Certo, da sempre tra dato e dono non vi è stata, per l’uomo, perfetta coincidenza. Ed è giusto ricordare che, per mettere in pari la esperienza, una via classica, mai del tutto esaurita e spesso anche vincente, è stata ed resta la riconciliazione, la accettazione, la resa, la obbedienza. Ma il mondo tardo moderno, correndo il rischio di “voler tutto ridurre sotto il proprio controllo”, e di disobbedire all’infinito, ha scoperto “mediazioni nuove”, in cui le “mani” hanno insegnato qualcosa alla parola. Qui io credo che la tradizione del “compito”, ossia la tradizione etica, ha conosciuto nuove aperture, nuove crisi e nuove opportunità. Provo a fare due esempi.

Due dati/doni classici: essere schiavi ed essere cardiopatici gravi

La storia della ragione comune, e anche della riflessione teologica, ha conosciuto a lungo forme di “riconciliazione” nella vita dei soggetti, che riguardavano la loro condizione “sociale” o “naturale”. Che cosa significava, nel mondo antico o moderno, essere “nati schiavi”? Era un “dato” che poteva certamente essere vissuto come “dono”. E così è stato. Ma da quando l’idea di schiavitù è stata culturalmente esclusa dalla dignità umana, è nata una “riconciliazione diversa”: si sono cambiati i rapporti sociali mediante nuove leggi e si è creato un mondo senza schiavitù (almeno senza schiavitù formale). Non è stato un fenomeno lineare: anche in un tale mondo “nuovo” potevano esserci regole per cui una donna di colore doveva liberare il posto in autobus se sul bus saliva un uomo bianco. La stessa cosa, su un piano diverso, è accaduta per i soggetti cardiopatici gravi. Essi erano chiamati, per lunghissima tradizione, ad assumere il “dato” imbarazzante come un “dono” e se ne facevano una ragione. E potevano riconciliarsi con la loro malattia ed essere capaci di vivere la vita intera come un dono. Ma quando è nata la “possibilità tecnologica” del trapianto di cuore, la relazione tra dato e dono è mutata. C’è stato un compito intermedio, una lotta, una ricerca, una sperimentazione, una “infrazione/sostituzione della natura” che ha aperto spazi di vita, di esperienza e di speranza nuovi e prima inconcepibili.

La legge e il compito, tra dato e dono

Perché ho proposto questi due esempi, che possono anche apparire impertinenti rispetto al tema? Perché in questa relazione tra “dato” e “dono”, che possiamo applicare al sesso, al corpo e alla vita intera, non possiamo leggere ogni passaggio culturale forte, dove entrano nuove parole o nuove tecnologie, solo con la categoria di “abisso antropologico”. Perché è lo stesso uomo/donna ad essere costitutivamente abissale. E la trasformazione della identità sessuale non inizia quando qualcuno pensa di “cambiare sesso”, ma quando la cultura comune non pensa più il sesso come una semplice dotazione per la generazione. Questa “trasformazione della intimità” è un fenomeno che ha ormai 200 anni e che è parallelo ad una diversa comprensione della legge.  Essa non dischiude semplicemente uno sguardo benevolo sul “delirio di un uomo manipolatore”, ma riesce a dare soluzione a questioni nuove, che sono e restano urgenti. Ma qui, appunto, occorre uscire da una visione della legge esclusivamente pedagogica, e aprirsi ad una funzione con cui la legge riconosce una sofferenza nuova e un nuovo diritto. Sarà sempre possibile pensare che una eventuale legge sulla disciminazione sessuale potrebbe favorire il capriccio di chi volesse provare ad essere uomo, essendo donna o donna essendo uomo. Ma questa valutazione è tipica di chi pensa il problema dal di  fuori. La tutela di coloro che non si percepiscono sul piano del genere in asse rispetto al loro sesso costituisce una questione vera, una esperienza profonda e dura, rispetto a cui l’abisso antropologico rischia di essere anzitutto quello di chi rischia di intenderla solo come il frutto di una “campagna di stampa” o di una “lobby di potere”.

Tra il dato naturale e il dono di senso vi è lo spazio aperto e complesso del compito. Questa non è una invenzione moderna. In questo spazio è possibile legiferare bene o male. Ma non credo che si possa semplicemente ridurre il compito al dono o al dato. Questo sarebbe, in sostanza, restare ad una impostazione che, non solo teologicamente, sarebbe troppo dipendente da un mondo che non c’è più. Sia chiaro, ciò non significa affatto che la decisione di un soggetto che “vuole cambiare sesso” (psicologicamente o fisicamente) possa essere collocata immediatamente né nel campo dei diritti soggettivi cui dare tutela diretta, né nel campo dei capricci che meritano solo un riprovero o una sanzione. Ci sono ordinamenti che non concepiscono neppure l’idea di tutelare queste scelte. Ci sono ordinamenti che le permettono persino ad un minore. Il discernimento resta necessario e prezioso: ma non può essere risolto con il rimando immediato né al dato né al dono. Poiché il sesso non è mai solo “natura” né solo “grazia”, ma cammino storico e passaggio coscienziale, comprensione generazionale del rapporto tra genere e sesso. Questa complessità esige a mio avviso categorie più complesse. Ma non per questo meno urgenti.

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